Quante volte vi è capitato di trovarvi al termine di una visita (guidata o non) condotta all’interno di una mostra durata anche qualche ora, per poi rendervi conto di ricordare poco (o nulla) di ciò che avete appena visto e/o sentito e chiedendovi infine “Dov’è il bagno?” Ebbene, non sempre questo dubbio si palesa nella mente dello spettatore; una fortuna che avviene laddove la mostra è essa stessa un’opera, una trasposizione in chiave materica di un’idea, di un’espressione artistica. Tale concetto è alla base della galassia multiforme che contraddistingue Vertigo Syndrome, un progetto artistico che sta riformulando il concetto di mostra, realizzando dei veri e propri viaggi all’interno dei mondi rappresentati, donando un’esperienza nuova ai visitatori. Si passa così dagli “Yokai” (antichi mostri giapponesi) alla cucina degli anime; dalle inquietudini stregonesche alle foto “mai viste” di Vivian Maier; fino al racconto dell’Istituto Superiore di Industrie Artistiche di Monza, tra le più importanti scuole di arte e design attive nell’Europa del primo Dopoguerra.
“La nostra missione è far uscire sorpreso, divertito e felice soprattutto chi è stato trascinato da qualcuno a visitare controvoglia una delle nostre mostre. Ci prendiamo cura di rendere l’esperienza affascinante e coinvolgente per ogni visitatore, rendendo il tema della mostra interessante anche per chi non è un appassionato, un esperto o uno specialista.” (Vertigo Syndrome)
Per entrare nel vertiginoso flusso creativo di Vertigo Syndrome, abbiamo intervistato uno dei suoi fondatori: Chiara Spinnato.
Tra le prerogative del progetto Vertigo Syndrome c’è l’idea di costruire un percorso dove lo spettatore possa essere coinvolto. Come si cattura l’attenzione del pubblico in questi tempi di velocità illimitata?
Su tutte le prerogative del progetto Vertigo Syndrome abbiamo anche stilato un vero e proprio Manifesto alla Filippo Tommaso Marinetti dove proclamiamo 10 principi per rivoluzionare per sempre l’esperienza delle mostre d’arte. Come saprai le mostre Vertigo Syndrome sono pensate su misura di una persona senza nessun interesse di vederla, trascinata lì da qualcuno controvoglia, che avrebbe preferito restare a casa o fare altro. La missione di pensare esperienze coinvolgenti quindi diventa una missione chiave. Solitamente all’inizio del percorso della mostra, quasi prima di dargli modo di vedere le opere, invitiamo il visitatore a partecipare a una esperienza che lo trasporti nel cuore del contesto storico e dello spirito dell’esposizione, stimolando sensi ed emozioni, che siano la paura, il divertimento, o lo stupore. Poi intervalliamo il percorso dell’esposizione con espedienti inaspettati che chiedono ai visitatori di non limitarsi ad osservare, ma ad agire e interagire con l’arte, facendo, scrivendo, toccando o ascoltando qualcosa che li tenga svegli e ben ancorati al contesto della mostra. Quello che vogliamo evitare è quella transumanza di visitatori passivi che attraversano le sale delle mostre perduti tra una lunga serie di opere e innumerevoli pannelli che li confondono e dei quali poi non conservano alcuna traccia una volta usciti.
Il titolo della vostra iniziativa rievoca un classico intramontabile di hitchcockiana memoria. Qual è la vertigine che vi prefigurate di far provare allo spettatore?
La vertigine dello stupore, prima di tutto. E poi quella della scintilla che accende una urgenza inaspettata di volerne sapere di più, cercare al bookshop libri che approfondiscano l’argomento della mostra e poi correre a casa a leggerli. Vorremmo davvero incoraggiare una nuova cultura della curiosità. Viviamo una epoca complessa che richiede già alle persone una grande sforzo per restare aggiornate su quello che riguarda il proprio lavoro o hobby. Questo incoraggia una certa pigrizia nell’avere anche la voglia e la curiosità di esplorare altri campi, soltanto per scoprire alla fine che si tratta di qualcosa di noioso. Ecco, a noi piacerebbe lanciare una sfida a questa apatia di molti e far capire che non esiste niente di poco interessante, che non abbia il potere di provocarti, appunto, la vertigine della scoperta. La mostra di qualunque cosa può trasformarsi in un’esperienza straordinaria se presentata in modo emozionante e coinvolgente.
Che poi, a pensarci bene, la vertigine sta alla base di ogni processo creativo. Potremmo forse dire che queste mostre, per la ricerca che offrono, conducono lo spettatore nel cuore dell’artista?
E’ proprio per questo che sudiamo sette camicie durante la preparazione di una mostra, e che facciamo tanta ricerca. Ovviamente, riconosciamo che ogni mostra d’arte è solo un frammento di un tema molto più vasto. Come dicevo prima, il suo scopo è stimolare la meraviglia insieme alla voglia di saperne di più, non esaurire un argomento in ogni aspetto. Non è realistico pensare che soltanto con un paio di centinaia di opere, qualche pannello e due esperienze immersive, tu possa strizzare fuori tutto quello che c’è dentro il cuore di quell’artista. Però puoi andarci molto vicino, puoi iniziare a far sentire sulla pelle del visitatore quali forze esterne ed interne hanno agito sull’artista per portarlo a creare quell’opera, puoi invitarlo a scoprire il sottotesto che quell’opera conteneva nella sua testa, e perché è stata fatta proprio così e non in uno degli altri infiniti modi possibili. Questo sì, si può fare. Per questa ragione selezioniamo curatori che non siano solo colti ma che abbiano cercato di indagare a fondo la gestazione, il periodo storico e le motivazioni di quello che poi esponiamo in mostra. Se non possiamo portare i visitatori nel cuore dell’artista, possiamo almeno fare in modo che provino cosa significa farsi battere proprio quel cuore in petto.
Cosa rappresenta per te il viaggio?
Per me, il viaggio è come una tela bianca che si colora man mano che avanzo.
Ogni passo, ogni incontro, ogni paesaggio aggiunge una pennellata unica al quadro delle mie esperienze.
Il viaggio è un’esplorazione non solo di luoghi, ma anche di me stessa come donna in esplorazione, un processo creativo in cui sono sia l’artista che l’opera d’arte in divenire. Come un curatore che seleziona attentamente le opere per una mostra, io scelgo le mie destinazioni ed esperienze per creare una narrazione coerente della mia crescita personale. Ogni viaggio è una nuova “sala espositiva” nella galleria della mia vita, dove raccolgo ricordi, emozioni e intuizioni che, insieme, formano un’installazione immersiva della mia evoluzione. Il viaggio, come l’arte, ha il potere di sfidare le nostre percezioni, allargare i nostri orizzonti e rivelare verità nascoste sia del mondo che di noi stessi. È un invito costante a guardare oltre la superficie, a cercare la bellezza nell’inaspettato e a trovare connessioni tra culture e idee apparentemente distanti.
Dagli spettri giapponesi alle streghe, dalla cucina degli anime alle foto mai viste di Vivian Maier alle atmosfere malinconiche dello Shinhanga, fino alle memorie dell’ISIA di Monza. Cosa dobbiamo aspettarci ancora dalle vostre mostre e dalla vostra forza vertiginosa?
Le mostre Vertigo Syndrome, come quasi tutte le altre, hanno la spiacevole caratteristica che non basta pensarle con forza vertiginosa, ma bisogna anche trovare uno spazio che le ospiti. Se però mi chiedi se stiamo lavorando ad altri temi inusuali da trasformare in mostre, la risposta è si, certo. Senza tanti spoiler, posso dirti che uno di questi riguarda il mondo di un personaggio famosissimo e molto affascinante che per milioni di ragazzi è stato sinonimo di AVVENTURA. Siamo entrati quasi casualmente in contatto con alcune persone in possesso di un gran numero favolosi oggetti, reperti originali e documenti vecchi di centinaia di anni su questo fascinoso personaggio, appartenenti proprio alla collezione del pronipote del suo peggior nemico…
Abbiamo in cantiere anche una mostra che affronta il tema del true crime, tanto amato in questi anni, ma da un punto di vista decisamente… estetico.
Ma appunto per adesso rimangono lì come formidabili frecce al nostro arco in attesa dell’occasione e dello spazio adatto ad essere scagliate…
Intervista di Francesco Latilla