Dialogare con Andrea Cavalletto è un’esperienza difficile da inquadrare in un discorso scritto, prefigurato, montato come quello di un’introduzione di stampo giornalistica. Questo accade quando ci si trova davanti ad un artista, un essere dotato di una sensibilità così vitale, carica di sfumature e capace di cogliere gli aspetti più celati di un racconto per immagini che è il cinema, e questa elegante e serafica complessità creativa si mostra sottoforma di un costume che verrà proiettato su uno schermo in una sala buia. Cavalletto, ormai conosciuto per pellicole di alto carico culturale oltre che di innovazione visiva, è tra i costumisti più richiesti del cinema nostrano, capace di passare dal genere italiano di grandi produzioni agli esperimenti delle nuove leve del cinema d’essai con una cultura ed uno sguardo accurato figlio dei suoi mentori, Piero Tosi e Maurizio Millenotti. È stato varie volte candidato ai David di Donatello e ha lavorato con alcuni tra i migliori registi contemporanei. L’intervista che segue risale ad un caldo pomeriggio di tardo mattino a Cinecittà dove lui stava lavorando ad un film. Mi ha permesso di entrare nel suo laboratorio di costumi, il covo dove fuoriescono le sue meraviglie, e con il suo sorriso e lo sguardo vispo da mago delle montagne mi ha fatto riflettere sul perché sono fondamentali i maestri: perché essi vedono ciò che è invisibile ai contemporanei.
Dopo il successo ottenuto grazie a film memorabili come “Martin Eden” di Pietro Marcello sei divenuto totalmente un nome di punta del costume cinematografico italiano. Cosa puoi rivelarci dei tuoi ultimi progetti? A quale film stai lavorando adesso?
Intanto ti ringrazio per il complimento. Adesso sto finendo la lavorazione del nuovo film di Pietro Castellitto prodotto da The Apartment, un’ottima casa di produzione con cui collaboro moltissimo ultimamente, si tratta di un’opera diversa dal suo film d’esordio “I predatori” che ho amato moltissimo tra l’altro. Di lui mi affascina questo suo percorso di studi filosofici e poi ha una propria visione del mezzo cinematografico, una poetica riconoscibile e che funziona ed infatti devo dire che lavorare con lui è davvero una bella esperienza. Abbiamo girato tanto, siamo ormai allo scadere delle dieci settimane. Sono molto curioso di vederlo montato, finito, dato che si presenta come un gran bel progetto.
Adesso stanno uscendo diverse opere i cui costumi portano la tua firma.
Si, è uscito ad esempio “Rapiniamo il duce” diretto da Renato De Maria con un cast importantissimo tra cui Matilda De Angelis, Tommaso Ragno, Isabella Ferrari, Filippo Timi e il già citato Pietro Castellitto. Un altro progetto che è uscito ultimamente è “I viaggiatori” con un grande Fabrizio Gifuni e diretto da un altro bravissimo regista, giovane tra l’altro, Ludovico Di Martino che è un ex allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ed infatti ci conosciamo ormai da tanti anni. Avevamo già avuto modo di lavorare insieme per “La Belva”, sempre con Gifuni. Quello fu un progetto particolare, un action-movie partito non tanto in sordina ma che ha ottenuto un successo inatteso tanto da essere considerato tra i prodotti più visti su Netflix a livello mondiale.
Nel 2015 sei stato candidato al David di Donatello per il film “Torneranno i prati” diretto da un poeta delle immagini come Ermanno Olmi. Che viaggio è stato e che ricordo hai del maestro?
Non basterebbe una giornata per rispondere a questa domanda. Penso sia stata una fortuna inarrivabile far parte di un’avventura che io stesso definisco un po’ il mio master, dato che fino ad allora avevo avuto modo di lavorare soltanto a film più piccoli dopo essere uscito dal Centro Sperimentale. Quella è stata un’occasione unica, toccare un cinema che veramente non si fa più e poter vedere da vicino la grande arte cinematografica realizzata da un maestro enorme come Olmi è qualcosa di inspiegabile. La cinematografia di Olmi ha continuato poi ad accompagnare la mia vita perché altri registi con cui ho lavorato, soprattutto il duo Matteo Zoppis e Alessio De Righi per “Re Granchio” e soprattutto Pietro Marcello, lo hanno come nome tutelare.
A proposito di Pietro Marcello, sono in preparazione per il film di Sara Fgaier che è stata montatrice e aiuto regista per due suoi film, “La bocca del lupo” e “Il passaggio della linea”. Anche lei, che tra l’altro è un’ottima documentarista, ha tra i suoi punti di riferimento il cinema di Ermanno Olmi. Devo dire che dell’impronta che ha lasciato nella mia vita ne sto parlando molto in quest’ultimo periodo, credo dopo il mio primo mentore che è stato Piero Tosi e Maurizio Millenotti che continua ancora ad essere un faro, Olmi si è dimostrato un vero maestro per me soprattutto per il film che abbiamo realizzato. Tendenzialmente, il nostro lavoro di costumisti fa in modo che ci sia una preparazione continua e di conseguenza non è detto che uno il set lo riesca a frequentare sempre. Invece in quel caso, grazie anche al fatto che una volta stabiliti ed elaborati i costumi non vi era bisogno di nient’altro in particolare, non ho perso un giorno del set ed è stata una gioia vedere Olmi lavorare con gli attori. Gli ho visto fare delle cose immense come il riuscire a far recitare persone che non avevano mai recitato una volta nella loro vita, come i ragazzi operai della fabbrica di marmellate Rigoni che aveva scelto come attori e che lavoravano di giorno o di notte e poi venivano sul set. Ricordo che uno di quei ragazzi un giorno disse di non aver mai recitato neanche la poesia sulla sedia alle elementari e invece qui veniva fuori con un monologo stupendo. È stata davvero un’esperienza incredibile, un po’ come vedere il burattinaio che tira i fili delle proprie marionette, poi ricordo che il suo sguardo era focalizzato su tutto, dalle inquadrature all’amore che dedicava ai costumi e alla scenografia. Era una persona sapiente, un uomo di cultura profonda, cosa che ahimè non esiste quasi più. Ho lavorato con tanti registi bravi, più giovani e meno giovani e per carità non voglio togliere nulla a nessuno, ma quella generazione di maestri si merita quel titolo, assolutamente.
Il fatto di essere stato allievo di Piero Tosi ti fa sentire in qualche mo0do figlio di quella grande tradizione che ha elevato l’arte del costume italiano dimostrando al mondo che siamo un paese di raffinatissima cultura visiva?
Guarda, figlio mi sembra tanto.
Erede?
Assolutamente no. Pensa che uscì un articolo tempo fa dove Maurizio Millenotti diceva una cosa secondo me geniale: “Nessun erede, tutti allievi”. Questo perché Piero Tosi è stato un unicum nella storia del teatro e della cinematografia mondiale, non a caso esiste un “pima di Tosi” e un “dopo Tosi” come approcci e questo lo riconoscono tutti, dagli americani ai francesi e così via. È stato talmente grande e unico che un erede è inimmaginabile, però è stato nella sua generosità infinita il fondatore di pensiero, di tutto un modo di concepire il costume per il cinema. Rispetto a quello, si, mi sento parte di quella tradizione, perché ho appreso moltissimo da lui proprio sul piano creativo e quindi per logica di bottega uno poi acquisisce un’impronta in un certo modo e quando si è a lavoro è come se ci fosse la sua voce a guidarci. Spesso ne ho parlato anche con Massimo Cantini Parrini, anche lui allievo di Tosi e grande costumista. In tutti noi che siamo stati suoi allievi è rimasta la voce della sua anima e ogni volta, davanti ad un progetto, ci si chiede: “Cosa farebbe lui?”
Un po’ come Billy Wilder che dietro di sé aveva la scritta: “Come l’avrebbe realizzata Lubitsch”?
Esattamente, poi qui stiamo parlando di grandi nomi da cui bisogna soltanto apprendere. Quindi, tutto questo rimane. Però non ho mai voluto sentirmi al di sopra della cattedra, al contrario penso che bisogna sempre sentirsi allievi ed è una cosa che mi sono portato dietro anche dopo aver concluso il percorso di studi al Centro Sperimentale, dato che abbiamo continuato a frequentarci fino all’ultimo e ancora era un maestro. Siamo riusciti a parlare anche di “Martin Eden” e del film su D’Annunzio, “Il cattivo poeta”, e gli feci vedere delle immagini di prove, di ricerca, chiedendo i suoi consigli utilissimi. Ecco, quei consigli che erano così preziosi, così accurati, perfetti, mancano molto. Poi lui possedeva una visione sulla realtà e sul contemporaneo incredibile che a me e anche altri colleghi costumisti, nonché suoi allievi, risulta molto difficile pensare che nella sua genialità riusciva a vedere delle cose che noi trentenni/quarantenni non riuscivamo a cogliere. La sua era una luce di modernità che andava oltre. Questa è la distanza dal presente che hanno i maestri.
Viviamo in un periodo in cui i maestri sono ormai quasi inesistenti e stranamente non si vedono allievi all’orizzonte, come se non si avesse più voglia di apprendere. Quanto c’è bisogno della figura dell’allievo in questi tempi inquieti?
È una bella domanda, anche perché sono due anni che aiuto Millenotti affiancandolo in alcuni corsi al Centro Sperimentale e devo dire che di ragazzi in gamba fortunatamente ce ne sono, la difficoltà però sta nel mettersi nella condizione di allievi. Purtroppo è vero che mancammo i maestri, infatti avere uno come Millenotti al Centro è una grande fortuna perché è uno degli ultimi grandi artefici di quel cinema di cui parlavamo prima, però dall’altra parte noto che non sempre i ragazzi sono disposti all’ascolto. Adesso che stiamo parlando di questa tematica, voglio raccontarti un aneddoto che trovo molto interessante. Come ben sai lavoro spesso alle opere prime perché lì vi è ancora quell’energia che non tutti riescono poi a mantenere nei film successivi e quindi mi affascinano e divertono davvero tanto. Ovviamente mi riferisco a quelle opere prime che attirano la mia attenzione, quelle in cui intravedo un talento. L’aneddoto è questo, l’estate scorsa grazie ad una di queste opere prime sono entrato in contatto con un gruppo di giovani artisti, tutti ragazzi tra i venticinque e i trentacinque anni, che si occupano di vari campi dell’arte, dalla pittura al cinema, dalla musica alla videoarte, e che sono tornati a Roma nel periodo della pandemia dopo aver studiato in svariate parti del mondo. Osservando le opere di coloro che si occupano di pittura mi sono accorto che mi ricordavano dei riferimenti importanti, Buffet ad esempio, e tutta una tipologia di arte che ho studiato. Ne abbiamo parlato e mi sono reso conto che loro non li conoscevano e il loro interesse è stato talmente forte che sono andati a ricercarli notando tra l’altro la somiglianza.
C’ho passato una notte senza dormirci sopra su questa cosa perché la mia mente era divisa in due fazioni: o dirgli di dimenticare tutto, perché il peso dei maestri sulle spalle può rischiare di frenare la ricerca verso il nuovo, o invece spronarli a riscoprire i maestri del passato, perché senza sapere cosa ci sia stato prima di noi come possiamo costruire qualcosa e fare un passo in avanti? Poi ci sono delle cose, che sono stato contento di scoprire, che paradossalmente appartengono alla sensibilità degli esseri umani e quindi a volte si arriva a certi risultati grazie alla sensibilità, al saper captare delle frequenze ma credo che se si ha una determinata preparazione anche culturale queste frequenze possono essere comprese attraverso uno spiraglio superiore. Quindi non sempre i maestri sono un limite, anzi sono importanti. Noi al Centro Sperimentale cerchiamo sempre di mantenere vivo il ricordo non solo di Tosi ma di tutti quei grandi he hanno segnato le epoche d’oro della nostra cultura cinematografica. È importante ricordarli.
A che punto del percorso ti trovi e quanto influisce il tuo ricordo di bambino amante del cinema nel tuo sguardo di costumista?
Guarda, il ricordo influisce sempre perché la nostra vita è legata ad un percorso e in qualche modo siamo quello che siamo già stati. Non so a che punto mi trovo del percorso, anche perché amo sempre sentirmi all’inizio. L’altro giorno tornavo dal set e mi sono reso conto che questo è forse il trentatreesimo film su cui lavoro, perché ho avuto la fortuna di cominciare abbastanza presto e ormai sono tredici anni che lavoro in maniera continuativa e quindi trentatré film tra cose grandi, piccole, prove di gavetta, mi sembra un buon numero. Insomma, sento di essere all’inizio del percorso, sicuramente non alla metà…
Intervista di Francesco Latilla