Elmetto in testa, mortai, granate, lanciafiamme e chi più ne ha più ne metta. C’è una nazione da difendere, l’onda nera del fascismo minaccia la nostra penisola, bisogna resistere, combattere e cantare Bella ciao.
Una volta sconfitto il nemico, accertata al popolo la libertà, allora si scenda per le piazze, si rida, si gioisca, si aspetti che un Moravia descriva la fiumana di gente ed il loro cuore giulivo.
A giudicare dalle quotidiane dichiarazioni e dai primi passi mossi da Letta&co (più appropriato sarebbe dire, dato i soggetti in questione, Letta e Compagni), questo sarebbe lo scenario perfetto per ambientare il romanzo, o meglio la commedia, della loro campagna elettorale. Sarà il caldo che dà alla testa, ma meglio ricordare a tutti che non siamo nel 1945, bensì nel 2022. Il nostro paese ha già vissuto giornate di festa per la fine della dittatura e della guerra (e che Moravia le ha già descritte magnificamente; a tal proposito si legga “Il conformista”) e abbiamo una costituzione che si fonda proprio sull’ antifascismo. Saremmo prolissi inoltre se ripercorressimo l’itinerario svolto dalla destra nel secolo scorso, soprattutto con la svolta di Fiuggi e le famose parole di Fini.
Dunque sembrerebbe che lo spauracchio del fascismo potrebbe e dovrebbe essere un’arma da riporre nel più recondito scatolone del proprio sgabuzzino. Guardandola da una determinata posizione politica, tuttavia, questa sarebbe una cartuccia troppo forte da lasciare inesplosa nella canna del fucile. Sicuramente attecchisce su larga parte del popolo, arrivando alla paradossale situazione che coloro che lottano i populismi hanno come fonte principale di sostentamento ciò che ormai si è svuotato della pregnanza che prima possedeva. Si è ridotto appunto in uno slogan che inebria la gente, in una formula che spiega tutto e non dice nulla.
Prima di passare ai fatti di cronaca di queste elezioni, sponda centro-sinistra, è bene completare il quadro introduttivo soffermandoci sul partito leader di questa coalizione, il Partito Democratico. Crediamo sia giusto farlo citando le parole di Ernesto Galli della Loggia in un suo editoriale del Corriere della Sera dell’11 agosto scorso. L’intervento di Galli della Loggia, che riprendiamo non solo per l’autorità della firma ma sopratutto per la completezza e la sintesi della storia del partito in questione, parte dai lontani anni ‘90, con l’inchiesta di Mani Pulite e le sue conseguenze. Scrive lo studioso sulle colonne del quotidiano di Via Solferino che tutto ha inizio quando “decretando l’immunità penale del vecchio Partito comunista stabilirono di fatto che il vecchio Pci era stato un partito speciale” , ovvero “l’unico custode delle pubbliche virtù, una qualità che per diritto successorio si estese facilmente a tutte le sue reincarnazioni seguenti: Pds, Ds e infine il Pd”. Con la seconda Repubblica allora il Pd si ritrova “promosso di fatto al nobile ruolo di partito serio e onesto «a prescindere», di garante per vocazione delle istituzioni”, con la convinzione che per essere il partito della sinistra basti “avere un nemico a destra da delegittimare in perpetuo come minaccia fascista e infine non avere nemici a sinistra”.
Letta allora, leggendo Galli della Loggia, si è fatto tentare e ha iniziato una dura campagna contro la Meloni e la coalizione di Centrodestra e nel frattempo si è avvicinato all’alleanza “cocomero” tra Verdi e Sinistra Italiana, proprio come auspicato nell’editoriale del Corriere della Sera sopracitato. Sembrava il piano perfetto, se fosse stato fin dall’inizio così. E invece il leader democratico è stato protagonista di un valzer (o più propriamente un tango, dato l’amore non corrisposto) con tutte le forze non-destra dell’arco costituzionale. Dopo che per due anni ha ballato con la rosa fra i denti con Conte, Letta ha deciso di lasciare il partner perché fra gli artefici della rovinosa caduta del Governo Draghi. Nel tentativo di arginare il fiume in piena della coalizione di centrodestra, il segretario ha parlato con tutti, nella speranza di racimolare anche pochi centimetri nella maratona che è stata, è e sarà questa campagna elettorale.
Dai teneri fianchi del “fu avvocato del popolo”, le mani di Letta sono passate su quelli, meno eleganti ma sicuramente più possenti, di Carlo Calenda, re e idolo incontrastato degli abitanti della zona a traffico limitato e inesorabili frequentatori di Twitter. Forse per gelosia, ma molto più probabilmente per le posizioni inconciliabili tra Azione e la coppia Fratoianni-Bonelli, Calenda ha deciso, in un caldo pomeriggio estivo dall’Annunziata, di lasciare il suo partner e appartarsi con Matteo Renzi nella comoda casa del Terzo Polo.
Da quel giorno Letta non è più lo stesso. La sua campagna elettorale sembra non ingranare, lo “scegli” che vediamo tutti i giorni sugli autobus non incide, gli appelli al voto utile non funzionano (come testimoniano i sondaggi positivi dei terzo-polisti). Inoltre il segretario ha dovuto attraversare lotte intestine per le liste, che hanno causato malumori e repicche, e le urla minacciose nel frusinate del capo gabinetto di Gualtieri, nonchè ex capo gabinetto di Zingaretti in regione, Albino Ruperti, emblema di un Partito Democratico romano con molte ombre e poche luci.
Le sensazioni di chi scrive, piccoli e umili ragazzi appassionati, sono che l’inerzia di Letta, quasi endemica nel leader democratico, non preannuncia un possibile rovesciamento del trend della prima parte di campagna elettorale. Mancano tuttavia ancora 17 giorni al voto del 25 settembre, i miracoli e le insidie sono sempre dietro l’angolo.
Simone Romano
Leonardo Di Salvo