«Mediterraneo allargato»: il concetto emerse prettamente fra gli anni 80-90, prendendo una forma definitiva con la Conferenza di Barcellona, tenutasi il 27 e 28 Novembre 1995, durante la quale l’obiettivo principale fu quello di inquadrare la regione MENA non più come composta semplicemente da Paesi in via di sviluppo, bensì come partner commerciale e politico per l’Europa.
La visione che possiedono i più del Mar Mediterraneo è quella di un bacino sicuramente poco esteso e semichiuso, quel mare “in mezzo alle terre” (dall’etimologia latina “mediterraneus”) che, per le sue dimensioni, dovrebberisultare come una preoccupazione secondaria nell’ottica delle grandi potenze internazionali. E se, invece, lo guardassimo da un’altra prospettiva, collegandolo a tutti i mari e le aree che lo circondano? È a quel punto che il Mediterraneo “allarga” i suoi confini: superiamo con lo sguardo le celebri “Colonne d’Ercole” dello stretto di Gibilterra e ci dirigiamo così verso le Canarie e l’Oceano Atlantico; a sud, il Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana, riesce, in ogni caso, a spaventare l’Occidente; a nord-est, lo Stretto dei Dardanelli non è più un confine, ma diviene il collegamento per il Mar Nero e la Crimea; non per ultimo, il Mar Rosso consente di penetrare addirittura nel Corno d’Africa, nonché di favorire una connettività marittima pari a circa il 12% del commercio globale (ovvero 1,2 milioni di tonnellate di merci trasportateda quasi 19mila navi e 15,6 milioni di unità di container lunghi venti piedi). Ed è così che si avvicina lo scenario più preoccupante, quello del Medioriente, che è parte integrante del bacino preso in considerazione e che sta facendo tremare le potenze europee (e non solo).
Se non ci si sofferma troppo, perciò, sull’analisi del Mar Mediterraneo dal punto di vistapuramente geografico, si può ampliare lo spettro di osservazione su settori che vengono considerati generalmente lontani, ma comprendono, al contrario, interessi strategici più vasti di quanto sia immaginabile sia dal punto di vista militare che economico (non dimentichiamo che circa il 20% del traffico marittimo mondiale e il 65% del traffico energetico verso l’Europa passano attraverso questo mare interno). Ed è questa l’ottica con cui, anche quest’anno, è stata proposta la decima edizione del Rome MED-Mediterranean Dialogues: promossa dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dall’ISPI, la conferenza si pone come fine ultimo quello di esaminare le dinamiche tradizionali con cui gli Stati occidentali tentano di approcciarsi al Medioriente e al Nord Africa, per poi integrarle in base alle sfide attuali. L’orizzonte che si mostra chiaro agli occhi del mondo non è certamente dei più rassicuranti: la regione MENA ha da sempre rappresentato un’area di forte minaccia per l’Europa proprio per l’incapacità di controllare un territorio tanto vasto, patria per almeno il 10% della popolazione globale. La debolezza delle istituzioni arabe (un esempio su tutti potrebbe essere quello libico, dove la lotta per l’autorità si fa via via più aspra), i rischi strutturali che compromettono la stabilità interna (basso reddito nazionale, intense disparità sociali…) e la scarsa cooperazione economica inter-araba fanno sì che la culla delle civiltà più importanti possa oggi essere vista come un semplice teatro di conflitti. La distruttiva guerra a Gaza, ormai in corso da più di un anno, può essere considerata solamente la punta di un iceberg che, ormai da diverso tempo, stava divorando dall’interno tutta la zona, sottoposta a decenni di tensioni irrisolte che hanno trovato poi sfogo solo in seguito all’attacco di Hamas del 7 Ottobre 2023 ai danni di Israele.
Il conflitto, che si è intensificato al punto da divenire una catastrofe umanitaria di enorme portata, ha coinvolto così, come un domino, tutti gli Stati confinanti, fino a essere inquadrato con grande preoccupazione dal mondo intero (e in particolare dall’Europa, anche per via dell’interdizione navale nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden da parte degli Houthi, sostenuti dall’Iran). Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, durante l’intervento di chiusura del Rome MED, ha scelto proprio di puntare l’accento sull’importanza geoeconomica e geostrategica assunta dalla zona MENA a livello internazionale: «Perimetrare il Mediterraneo a confini fissi è una “diminutio”». Ed è così che trova finalmente un nuovo appellativo con cui riferirsi alla regione: non si tratterà più di “Mediterraneo allargato”, ma l’attenzione sarà indirizzata verso il «Mediterraneo globale». Un “regno di nessuno”, che andrà a influenzare, però, le strategie politiche di tutti.
Per analizzare le dinamiche internazionali che vanno a coinvolgere la regione MENA, bisogna sicuramente partire dall’influenza che possiedono in questa zona le cosiddette “potenze revisioniste”, il cui obiettivo è quello di barattare il tentativo di riportare un’”ipotetica” sicurezza negli Stati più fragili del “Mediterraneo allargato” per una sottintesa ostilità nei confronti dell’Occidente. La Cina trova una priorità nei rapporti con il Medio Oriente per il suo progetto di divenire un’egemonia globale a livello economico. Il Presidente XiJinping ha aperto il decimo incontro ministeriale del China-Arab States Cooperation Forum, tenutosi il 30 Maggio 2024 a Pechino, con un’idea ben chiara: l’obiettivo che unisce Cina e Stati arabi è quello di coltivare una pace in Medio Oriente che possa contrapporsi alla posizione di instabilità portata avanti dagli Stati Uniti con il suo sostegno a Israele. Parole che risuonano come una vittoria per i Ministri degli Esteri dei 22 Stati membri della Lega araba che hanno preso parte alla conferenza. Negli ultimi decenni, approfittando della “distrazione” dell’Alleanza Atlantica, occupata sul fronte orientale, le relazioni tra Cina e Stati arabi si sono sempre più rafforzate, rendendo il Paese asiatico non solo un riferimentoeconomico fondamentale (con una quota di mercato del 27-28%), ma anche una superba alternativa politica all’influenza americana. Non casualmente, la Cina è divenuta il più importante partner commerciale per la regione MENA, soprattutto grazie a uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi a cui il Paese abbia mai assistito, la “Belt and Road Initiative” (dai più conosciuta come la “Nuova Via della Seta”). Lanciata nel 2013, il programma includeva non solo la costruzione di ferrovie, autostrade e condotte energetiche, ma soprattutto la realizzazione di aree economiche speciali tese alla creazione di nuovi posti di lavoro. E se un piano simile ha consentito al Paese asiatico di ampliare il suo spettro di influenza, a tal punto da concorrere con gli Stati Unitinell’economia globale, ha anche riconosciuto agli Stati arabi un ruolo di primo piano nell’esportazione del petrolio e nella fornitura di infrastrutture per i Paesi aderenti al progetto BRI.
In questo modo, la Cina è riuscita a ottenere la partecipazione alla Shangai Cooperation Organization (SCO) e ai BRICS della regione MENA: un partenariato che potrebbe portare gravi danni a livello economico per l’Occidente. Se, però, l’obiettivo della prima potenza esaminata è quello di affermarsi sul piano commerciale/energetico, la Russia si pone come scopo quello di imporsi (di nuovo) come grande potenza a livello internazionale. Analizziamo il caso-modello del Sahel: un tempo patria dei francesi, lentamente la zona si è colorata sempre più di bianco-blu-rosso con l’insediamento prima del Wagner Group, la compagnia paramilitare della Federazione russa, poi dell’Africa Corps, fino a giungere al giorno d’oggi, con la diretta gestione sul territorio del Ministero della Difesa e dell’intelligence militare. Il ruolo chiave in quest’operazione di insediamento nell’area è stato assunto da due personaggi di spicco: il Viceministro della Difesa, il generale Yunus-bek Yevkurov, e il generale Andreij Averyanov, che supervisiona gli Africa Corps e ha comandato per diverso tempo il 161° centro del GRU, la Direzione Generale per le Informazioni Militari. Ed è proprio per questo che, rispetto alle 7 del 2015, le intese militari tra la Federazione Russa e gli Stati arabi sono arrivate a essere addirittura 20. Non può essere sicuramente un caso se l’export di armamenti da parte del monopolista russo Rosoboronexportè premiato dalla regione MENA, che permette ai vari Stati (soprattutto Algeria ed Egitto) di approvvigionarsi dall’alleato, anche illegalmente, fino a raggiungere il 30% del totale importato.
E dal punto di vista commerciale? Aziende come Gazprom, Rosneft e Lukoil, specializzate nei settori minerari e petroliferi e nel nucleare civile, hanno consentito alla Russia di raggiungere, nel 2023, un ammontare di 18 miliardi di dollari di interscambio con l’Africa, pari a una percentuale di crescita, nell’ultimo decennio, del 400%. Putin non potrà arrivare in Africa all’espansione economica cinese, ma in ogni caso è riuscito a intessere relazioni diplomatiche e reti di ambasciate con 49 dei 54 Paesi continentali, così che, in seguito allo scoppio della guerra contro l’Ucraina, l’isolamento da parte dell’Occidente risultasse meno arduo da fronteggiare. Ma in questa crescente influenza di Cina e Russia nella regione MENA, l’Alleanza Atlantica come avrà deciso di comportarsi? Due eventi principali hanno scosso gli Stati Uniti nell’ultimo periodo, facendo sì che anche l’approccio del Paese nei confronti della gestione delMediterraneo allargato e del conseguente rapporto con l’Europa si trovasse in bilico fra le visioni di due figure di estremo risalto politico.
Da una parte, il 2 Ottobre 2024 si è insediato, come nuovo Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, Premier olandese uscente: fervido “europeista”, la sua proposta è quella di distaccarsi dai comportamenti assunti dal suo predecessore Jen Stoltenberg, evitando così di concentrare l’interesse occidentale sulla lotta alla Russia e portando una visione più lungimirante, diretta anche al futuro del “Mediterraneo allargato” e all’influenza degli Stati Uniti su esso. D’altra parte, però, le elezioni americane del 5 Novembre hanno decretato il secondo mandato presidenziale di Donald Trump, che entrerà ufficialmente in carica il 20 Gennaio 2025. Con il suo atteggiamento semi-isolazionista, il Tycoon si ritiene maggiormente impegnato nella competizione con la Cina per l’egemonia globale, di conseguenza il “campo di battaglia” principale risulterebbe essere quello dell’Indo-Pacifico, non tanto quello del cosiddetto “Southern Flank”.
Gli Stati Uniti sono, in ogni modo, consapevoli dell’importanza della regione MENA, tanto da mantenervi 25 basi militari e 40000 soldati schierati, proprio per l’influenza esercitata su di essa dalle “pericolose” potenze revisioniste. L’amministrazione Trump ha comunque cercato di adottare un approccio più conflittuale con gli alleati della NATO rispetto aquello del suo predecessore Biden.
Potrebbe arrivare il ritiro dell’America dall’Alleanza Atlantica se non venisse “pagato il conto” dall’Unione Europea? Probabilmente no, ma, siccome la zona maggiormente interessata dai dissidi nel “Mediterraneo allargato” è proprio l’Europa, soprattutto le penisole meridionali, e la dispersione di americani in quei territori è vista da Trump come uno spreco di risorse, sicuramente la richiesta è più che chiara: maggiori impegni di spesa militare da parte degli alleati europei.
di Vittoria Schina