Intervista Checchia. Sfide transatlantiche
A pochi giorni dalle presidenziali statunitensi, la società americana appare divisa, frantumata e magmatica. Dalle contaminazioni e fluidità dei gruppi etnico-sociali rispetto ai due candidati fino al peso dei rapporti con Pechino. Una magmaticità che rende il suo esito tanto cruciale quanto incerto. Affidando il destino della più grande democrazia occidentale a pochi voti, a pochi stati. Un verdetto che potrebbe influenzare le relazioni transatlantiche oltre che l’evoluzione degli equilibri di questo incerto e complesso scenario internazionale, ricco di ambiguità e incertezze. Cosa cambierà con Trump e cosa con Harris?
Per meglio comprendere queste dinamiche abbiamo intervistato l’ambasciatore Gabriele Checchia, presidente del Comitato strategico del Comitato Atlantico Italiano e direttore per le relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo, e già ambasciatore italiano in Libano, presso la Nato e presso l’Ocse/Esa/Aie a Parigi.
A pochi mesi dalle elezioni americane come prevede si concluderà il duello elettorale tra democratici e repubblicani?
La mia sensazione è (come del resto è opinione dei principali commentatori italiani e esteri) che la partita delle presidenziali statunitensi sia ancora aperta e che la sfida tra Trump e Harris non sarà decisa solo da pochi stati, ma anche da pochi voti, soprattutto quelli degli indecisi in alcuni stati chiave. Tutti concordano, infatti, che la vera sfida si giocherà soprattutto nei cosiddetti swing states -gli stati in bilico- della “rust belt” e della “sun belt”. Degli stati in cui non esiste un sostegno storico o granitico ad uno dei due grandi partiti, e dove quindi sarà decisivo capire in che modo si posizioneranno quel circa 3% di indecisi che potrebbero spostare l’ago della bilancia delle elezioni presidenziali. Si tratta, del resto, di una tornata elettorale estremamente complessa e tesa. Anche perché le differenze tra i principali candidati nei 7 stati chiave (che hanno il 18% della popolazione americana e 93 grandi elettori) sono prossimi ai margini di errore nei sondaggi. In questo caso gli stati più decisivi, tra gli swing states, saranno quelli del nord, anche perché detengono più grandi elettori: Pennsylvania (con 19 grandi elettori) e il Michigan (che ne ha invece 15).
Come si sta sviluppando il duello tra Harris e Trump in questi due stati del rust belt e quali vantaggi e svantaggi presentano per entrambi i candidati?
Anche in questi stati la sfida elettorale è tendenzialmente aperta. In Pennsylvania c’è una linea di frattura tra le zone più ricche e i grandi centri urbani come Pittsburgh e Philadelphia (dove prevale la Harris) e le aree rurali ed i piccoli e medi centri (in cui prevale nettamente Trump). Una bipartizione che però seppur sembra dare un leggero vantaggio alla Harris è molto magmatica, tanto da rendere la partita elettorale ancora indefinita nei suoi esiti. Ci sono però due principali fattori di incertezza. Il primo è sapere come si posizioneranno in questo stato quegli elettori che alle primarie del Gop hanno votato per Nikki Halley (che ottenne circa 150.000 voti seppur essa si fosse già ritirata). Occorre, quindi, capire se essi confermeranno Trump o indirizzeranno i loro voti verso i democratici.
Un altro fattore di incertezza è poi dato dalle conseguenze che ci saranno nello scenario elettorale a causa degli effetti della crisi industriale che la Pennsylvania sta vivendo e che potrebbe avere conseguenze sulle scelte dei lavoratori del settore industriale colpiti dalla crisi economica e dalle possibilità di delocalizzazioni. Tanto che mi sembra importante sottolineare il sostegno che sia Trump che Harris hanno dato ai lavoratori di una grande acciaieria di Pittsburgh in sciopero di fronte all’acquisizione della propria compagnia da parte di un gruppo giapponese. Mi sembra opportuno sottolineare che entrambi puntano -seppur in modi diversi- ad accreditarsi come difensori del lavoro americano. In questo scenario è rilevante anche la profonda attenzione che la Harris sta mostrando sulla questione del Fracking; passando da una iniziale contrarietà ad una tiepida apertura. Una disponibilità su questa tematica che si pone come un gesto di apertura agli elettori centristi e repubblicani che invece sono molto sensibili sulle tematiche energetiche più di quanto lo siano su quelle ambientali… È interessante notare poi che sia Harris che Trump hanno fatto numerose visite in questo stato oltre che impiegare grandi disponibilità finanziarie nella loro campagna elettorale.
Invece il Michigan?
Il Michigan è un altro stato con una importante tradizione industriale e una lunga storia democratica, ridimensionata nell’ultima fase (nel 2016 fu conquistato da Trump, nel 2020 fu vinto per pochi voti da Biden). Un aspetto importante è la presenza di una forte componente arabo-islamica, molto sensibile sulle posizioni che prenderà il futuro presidente nello scontro tra Israele ed Hamas. Un tema in cui i democratici sembrano essere favoriti. Anche se è chiaro che questa comunità si aspetta una maggiore equidistanza dalla Harris rispetto al suo predecessore; oltre che una maggiore distanza dal governo di Netanyahu. E questo potrebbe essere un vantaggio, ma allo stesso tempo un problema per i democratici soprattutto nell’ambito del rapporto con il voto moderato e il voto ebraico.
Non a caso in una visita della Harris nel Michigan a Flint, è avvenuto un incontro tra il candidato democratico e i rappresentanti della comunità arabo-islamica dello stato, dove sicuramente saranno state esposte queste istanze. Una tematica, quella del conflitto israelo-palestinese, che potrebbe favorire la Harris soprattutto per captare i consensi dei grandi college progressisti che sono presenti nello stato e che vedono tanti giovani studenti filopalestinesi e anche filohamas. Due categorie sociali che potrebbero corroborare una vittoria della Harris anche se non è detto che potrebbero aprirne una vittoria definitiva. Ci attendono dunque giornate decisive. Soprattutto perché le conseguenze del risultato del 5 novembre saranno cruciali nelle evoluzioni dello scenario internazionale.
Come pensa verranno, quindi, ridefiniti i rapporti transatlantici in caso di una vittoria dell’uno o dell’altro candidato? E che conseguenze ci saranno per gli USA nel rapporto con la NATO?
La mia sensazione è che se si dovesse affermare Donald Trump il rapporto transatlantico sarà certamente più spigoloso di quello attuale. Con una amministrazione trumpiana che sicuramente incalzerebbe i partner europei, come ha fatto nel suo primo mandato, affinché essi riequilibrino e aumentino le loro spese nella difesa per raggiungere i parametri NATO. Ricalibrando finalmente l’onere che ora sostanzialmente grava soprattutto sui contribuenti americani. Credo inoltre ci sarebbe sicuramente un ritorno a soluzioni protezionistiche più elevate di quelle attuali (con dazi soprattutto sui prodotti europei se non si creeranno soluzioni per aprire i mercati europei ai prodotti americani…) oltre che una maggiore preferenza per un approccio bilaterale rispetto ad un multilateralismo tipicamente democratico. Quindi prevedo alcune discontinuità tattiche se vogliamo, ma non ipotizzo né una uscita dalla Nato degli Stati Uniti, né un approccio conflittuale e ostile con i Paesi europei, come tali ipotizzano. Ipotesi che a mio avviso oltre ad essere irreali sono assai fantasiose. Anche perché tra le figure chiave di una futura amministrazione trumpiana ci sono personalità evidentemente di chiara fedeltà atlantica come ad esempio Mike Pompeo.
Se invece si dovesse affermare Kamala Harris credo continuerà un approccio affine e in continuità con quello del presidente Biden, seppure declinato in una maniera più carismatica. Anche se credo che pure la Harris sarà molto attenta nello stimolare un maggiore impegno europeo nelle spese per la difesa in ambito atlantico, pur senza particolari attriti. Una cosa che mi sembra interessante sottolineare però è l’approccio del segretario generale della NATO, Mark Rutte, che si è distinto per una cauta e imparziale equidistanza dai due candidati nelle sue prime esternazioni. Rovesciando le valutazioni di chi si aspettava una maggiore predilezione per la Harris, dimostrando invece una esperta e prudente imparzialità rispetto ai pronostici, con anche qualche parola di apprezzamento verso il leader del Gop. Tanto da deludere alcuni commentatori più progressisti, con i suoi interventi di apertura rispetto al lavoro svolto durante la presidenza Trump ai tempi della sua attività istituzionale nella governance olandese, oltre che affermando che la amministrazione Trump ha avuto il merito di incentivare e mobilitare i paesi europei verso un rilancio delle proprie politiche di difesa per l’alleanza atlantica. Interventi in cui Rutte ha inoltre ammesso che Trump aveva ragione nei suoi allarmi nei confronti della Cina. Soprattutto risvegliando molti governi (anche con definizioni pungenti) dal loro torpore, specie quello tedesco, spingendoli ad un maggiore impegno. Io credo, quindi, che l’alleanza atlantica non debba temere l’eventuale vittoria di uno dei due candidati né possa considerare una vittoria trumpiana un pericolo alla propria solidità. Anzi.
Quanto l’economia e le tematiche economiche (pensiamo alla battaglia sull’inflazione) saranno determinanti nella campagna elettorale, come del resto lo sono state nell’ultimo dibattito?
Sul piano economico le ultime ricerche, dei principali centri studi statunitensi, evidenziano quanto le tematiche economiche siano prioritarie per gli elettori americani. I cittadini statunitensi sono, quindi, fortemente condizionati dagli andamenti economici (soprattutto quelli più recenti) nelle loro valutazioni elettorali più di quanto lo siano su altri temi. In tal senso direi che i democratici hanno qualche elemento di preoccupazione in più perché i prezzi sono complessivamente aumentati di circa il 20% da quando Biden è entrato in carica (nonostante alcuni recenti cali dell’inflazione).
Lo sticker shock ha poi un forte peso nelle valutazioni degli elettori soprattutto nelle classi medie e medio basse. Un altro aspetto è manifestato dal fatto che i redditi reali ad inizio anno crescevano dell’1% mentre ora sono scesi di circa la metà per i rallentamenti in atto dell’economia statunitense. Una tematica profondamente cavalcata da Donald Trump che utilizza questi dati per delegittimare i risultati della amministrazione Biden e dei suoi rappresentanti. La sensazione prevalente nell’elettorato americano è, infatti, che gli elettori considerano i repubblicani ottimi amministratori -soprattutto sui temi economici- molto di più rispetto ai democratici. Un tema ben colto da Trump che sottolinea su questo versante gli ottimi risultati della sua precedente amministrazione rispetto a quelli dei democratici. La stessa Harris è rimasta, infatti, molto vaga nelle scorse settimane sul suo programma economico, anche per la difficoltà di distaccarsi dalle politiche dell’amministrazione Biden, di cui in quanto vicepresidente è stata inevitabilmente una delle principali compartecipi. Proprio per questo la Harris prova ad evadere questa tematica personalizzando molto la sua campagna e puntando molto su un cambio di rotta che propone un rinnovamento garantito soprattutto dalla discontinuità generazionale da lei incarnata. Una personalizzazione fondata sul suo carisma e sulla sua storia che si rivela molto efficace in alcune fasce sociali e zone del Paese, ma che non sappiamo se sarà decisiva a livello sistemico e soprattutto negli stati chiave.
Secondo lei il Maga (e anche il Maha, la sua variante kennediana) saranno il futuro del Gop? E pensa che la figura di J. D. Vance possa incarnare un futuro trumpismo senza Trump?
Io credo che Vance possa rappresentare tanto il futuro del Maga quanto quello del Gop soprattutto in caso di una vittoria trumpiana. Mentre, invece, in caso di una seconda sconfitta dell’ex presidente tutto sarebbe più incerto e complesso, anche per la necessità di assestarsi su posizioni diverse da quelle del trumpismo. Se il ticket Trump-Vance dovesse però trionfare io credo che la sua figura tanto come vicepresidente, quanto come giovane astro nascente di un Partito Repubblicano più popolare e protezionista, potrebbe configurarsi, come quella del vero erede politico di Donald Trump.
In effetti la traiettoria di Vance ci porta a credere che egli possa incarnare al meglio questa nuova anima conservatrice, dirompente, ma anche per alcuni aspetti libertaria, di un Gop che non è più espressione delle classi agiate, specie di cultura anglosassone e protestante, ma di una classe media che ha il suo nucleo fondante nei cosiddetti “piccoli bianchi”, che hanno una carica di risentimento verso l’establishment notevole, e un forte radicamento nei Flyover states. Un nocciolo duro che portò Trump alla vittoria nel 2016 e che potrebbe riportare un candidato repubblicano anche nel 2024 ad un ritorno alla Casa Bianca. Vance poi oltre ad avere un ascendente forte su queste porzioni dell’elettorato già citato potrebbe essere in grado di captare anche la componente più vicina ad un repubblicanesimo classico. In questa fase di possibile transizione, da un establishment repubblicano su posizioni centriste e neocon (tra Romney e Cheney) ad uno con una maggiore sensibilità verso i ceti popolari e una diversa composizione sociale (meno agiata e altolocata), Vance si caratterizza come il rappresentante di una nuova idea e immagine del Partito Repubblicano. Il candidato vicepresidente si caratterizza, infatti, come una figura di una chiara impostazione conservatrice (antiwoke e antiprogressista), con una idea tradizionale dell’America (e della famiglia americana), ma anche con una visione antiestablishment e contro gli eccessi e miti della globalizzazione e del globalismo. Dimostrando una maggiore attenzione alle istanze produttive e alla difesa del lavoro e dei lavoratori americani, rispetto ad altri suoi predecessori. Va poi sottolineato che Vance è un selfmade man, con una formazione avvenuta in un contesto umile e difficile, che si è affermato con estrema perseveranza anche col sostegno della nonna (dato che i genitori erano divorziati e non ne hanno sostanzialmente seguito le sorti) e si è poi distinto nel settore delle alte tecnologie con ottimi e solidi contatti con le élite della Silicon Valley. È quindi sia un imprenditore che ha svolto un eccellente percorso professionale, dimostrando tra l’altro una forte sensibilità sociale e culturale (pensiamo al suo splendido “Hillbilly Elegy”), che un impegno al servizio del suo Paese come marines impegnato nella guerra in Iraq. Vance si è poi formato con delle letture conservatrici ma anche con riferimenti libertarian, ed una visione della vita antagonista alla cultura di Davos (alla Soros)che vede lontana se non incompatibile con i veri problemi dei cittadini americani. Ha quindi un profilo perfetto per ottenere tanto i consensi nell’elettorato storico del mondo repubblicano quanto in quello di matrice trumpiana, oltre che nei ceti popolari delusi dai democratici. Credo poi che Vance coltiverebbe in politica estera non dico un ritorno all’isolazionismo americano, ma una bussola nelle relazioni internazionali ispirata alla visione del America First, con posizioni isolazioniste tipiche di una visione realista e non come detto da alcuni commentatori proponendo un disimpegno ispirato a velleità ideologiche e sciovinistiche.
Come pensa cambierà la bussola internazionale statunitense con una nuova presidenza Trump e che ruolo potrebbe avere in questo Vance?
Credo che Vance potrebbe spingere Trump verso posizioni che tradurrebbero sul piano internazionale le aspirazioni del Maga, con una maggiore distanza verso le grandi crisi dello scenario internazionale, ma non venendo mai meno agli american ideals and interests. Poi vorrei aprire una piccola parentesi sulla cosiddetta “deriva isolazionista trumpiana”. Un’espressione evocata spesso con scandalo o con stupore verso la politica estera statunitense proposta dal tycoon, ma la cui demonizzazione mi sembra impropria. La storia del Partito Repubblicano, del resto è stata caratterizzata da una lunga tradizione isolazionista che va dal presidente Harding e arriva fino alla Grande Depressione e che ha avuto nel tempo varie riprese e rinascite di spessore, oltre che radici antiche e ben inserite nella storia statunitense. Basti pensare che il primo vero discorso “isolazionista” fu quello di George Washington il 17 settembre del 1796 con il suo Farewell Address. In cui l’ex presidente americano sottolineava la necessità di non istaurare alleanze permanenti, ma di ridefinire e contestualizzare i propri foreign affairs sulla base di visioni che privilegino il benessere del popolo americano.
La polemica di Vance sul ruolo degli USA non è quindi una rottura o un tradimento con la storia e i valori americani, ma si inserisce in una sensibilità e in una bussola che è appartenuta storicamente ad una parte degli USA. Una interpretazione quella di Vance che non contesta solo l’interventismo democratico di stampo messianico e moralista da Wilson a Biden, ma anche quello neocon basato sulla pretesa dell’esportazione della democrazia predicando un realismo politico che potrebbe declinare verso una logica non interventista, ma non per questo chiusa in un isolamento politico. Un aspetto che mi appare poco credibile anche alla luce delle esperienze della precedente presidenza Trump… Ebbene, io credo che gli Usa saranno, quindi, anche con e Trump Vance sempre un partner ineludibile del mondo occidentale (specie di Israele) e dell’Europa soprattutto.
Intervista di Francesco Subiaco