La crisi di Gaza ha sconvolto un Medio Oriente che finalmente sembrava trovare una normalizzazione dei propri rapporti interni con gli Accordi di Abramo e le possibilità della Via del cotone. Sembrava, infatti, fino a poche settimane fa, non più una utopia la possibilità di costituire un nuovo ordine mediorientale tanto capace di contenere le spinte e le ambizioni delle autocrazie orientali, come Iran e Cina, quanto aperto all’Occidente e ad un ruolo di collaborazione e prossimità con Israele. Lo scontro tra lo stato israeliano e Hamas, prodotto dai tragici fatti del 7 ottobre, ha però adombrato momentaneamente questo tipo di equilibrio, aprendo uno scontro dai riscontri globali che si inscrive in uno scenario di in-sicurezza internazionale in cui si mostrano prepotentemente le spinte delle autocrazie. Per meglio comprendere questi movimenti e fattori abbiamo intervistato l’Ambasciatore Gabriele Checchia, già ambasciatore in Libano e alla Nato, attualmente Presidente del Comitato Strategico del Comitato Atlantico Italiano, presieduto dal professor Fabrizio W. Luciolli, e responsabile esteri della Fondazione Farefuturo. Checchia, tra le voci più autorevoli del panorama italiano per le relazioni internazionali, ha infatti analizzato finemente i veri nodi della crisi di Gaza in un suo ultimo editoriale su Charta Minuta, delineando un orientamento di fondo dei principali fattori che si innescano attorno ad essa, prefigurando la necessità di una soluzione politica tanto auspicata quanto necessaria per la risoluzione del conflitto.
Ambasciatore, in un suo recente articolo su “Charta Minuta” ha analizzato in maniera attenta e rigorosa i veri nodi della crisi di Gaza. Quali sono state le cause e i moventi che hanno portato alla nascita di un conflitto in Medio Oriente tra Israele e Palestina?
È una crisi molto complessa, le cui radici sono sia di carattere interno al binomio Israele-Hamas, sia dovute a cause di natura internazionale. Per quanto riguarda le cause di natura internazionale, non vi è dubbio che la tragedia del 7 ottobre e i fatti che ne sono conseguiti, con gli atti feroci compiuti dai terroristi di Hamas all’interno del territorio Israeliano a ridosso della Striscia di Gaza, siano anche il “riflesso” di una volontà di talune potenze regionali di non essere escluse da quello che si stava profilando come un nuovo Medio Oriente basato in qualche misura ,se non in modo preponderante, sugli Accordi di Abramo. Cioè un accordo tra Israele e i principali stati arabi, di cui alcuni già da tempo intrattengono relazioni diplomatiche con Israele come Egitto e Giordania, per raggiungere rapporti normalizzati e definendo una collaborazione ad ampio spettro basata soprattutto sugli aspetti economici e tecnologici. Chi più temeva che questi accordi di Abramo potessero poi sfociare nella famosa e tanto discussa normalizzazione dei rapporti tra Riad e Tel Aviv direi che era soprattutto l’Iran, potenza sciita in competizione con l’Arabia Saudita e la Turchia per la leadership del mondo islamico ed anche per la leadership della causa palestinese.
Cosa temeva il governo degli Ayatollah di Tehran?
Temeva e teme che si potesse pervenire ad una normalizzazione, e in alcuni casi convergenza, dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita che avrebbe ridimensionato profondamente il ruolo dell’Iran in Medio Oriente. Ciò avrebbe potuto inoltre determinare una valorizzazione della collocazione geopolitica, logistica e strategica di Israele nel quadro della famosa Via del cotone, potenziale concorrente alla Via della Seta di matrice cinese, che avrebbe potuto collegare India e Europa in una nuova prospettiva commerciale. Israele, infatti, sarebbe dovuto essere uno snodo centrale di questa nuova Via del Cotone, che nei suoi orientamenti avrebbe ridefinito il rapporto tra Oriente e Occidente. Tutto questo turbava molto Tehran e la mia sensazione è che dietro questa efferata violenza di Hamas ci sia, se non un coordinamento, almeno un via libero iraniano. Non posso pensare, aldilà delle affermazione delle autorità iraniane, che Teheran fosse completamente all’oscuro di quanto Hamas stava concependo e di quanto tali tensioni sarebbero state utili, tornando al quadro delle relazioni internazionali, per affondare gli Accordi di Abramo. Poi su questo panorama si sono innestate anche delle dinamiche interne al rapporto Israele-Palestina, che sono il frutto di anni di mancata soluzione politica della crisi palestinese. Lì le responsabilità sono di ambo le parti. L’Autorità Nazionale Palestinese viene percepita da ambo le parti come in larga misura poco credibile, ed anzi per molti decisamente delegittimata. C’è in questo quadro soprattutto il ruolo di Hamas che non ha mai rinunciato al suo primo vero obiettivo che è la distruzione dello stato di Israele, che ha mantenuto il suo potere usando strumentalmente la causa palestinese. Hamas, infatti, è un movimento fondamentalista, che nel suo statuto dice a chiare lettere che il suo obiettivo è espellere Israele dalla ragione in cui esso si è costituito e dal mondo arabo, foraggiando ed alimentando l’odio contro gli ebrei. Su queste criticità mai risolte, aggiungendo ad esse anche la volontà di talune componenti dell’esecutivo Netanyahu soprattutto quelle più ortodosse ed estremiste di “rosicchiare” sempre più terreno ai palestinesi in Cisgiordania, si sono costituite le tensioni che hanno creato il terreno fertile per una incursione di Hamas. Essa ha cavalcato per motivi che hanno poco a che fare con la causa palestinese, ma molto con l’agenda fondamentalista di cui Hamas è portatore.
Ho, inoltre, letto con attenzione quanto detto da Isma’il Haniyeh negli ultimi giorni, il quale non è nemmeno tra le figure più radicali di Hamas e che anzi ha parlato di disponibilità, a certe condizioni, al riconoscimento dello Stato di Israele in presenza di un riconoscimento e della nascita di uno stato palestinese. Lui ha detto in sostanza, rivolgendosi ai palestinesi da una TV panaraba, da quello che io so finanziata da Teheran, “Restate dove siete, non credete al nemico sionista, non lasciate Gaza poiché il martirio vi attende”. Queste sono le espressioni tipiche di chi si cura di una agenda islamica fondamentalista e non della causa e della sorte dei palestinesi. Ci sono molti articoli dello statuto di Hamas, anche tradotto in italiano, dalla quale traspare chiaramente che per essi il nemico e il male assoluto è l’ebreo in quanto tale. Uno statuto, va precisato, dove si parla più della distruzione dell’entità sionista che del destino e della salvaguardia del popolo palestinese. Ritengo quindi che sia nel combinato disposto tra cause internazionali, soprattutto date dalla paura dell’Iran di essere espulso da una ricomposizione del quadro mediorientale con un Israele riammesso a pieno titolo nei giochi di quella regione, e di moventi interni, relativi alla irrisolta questione palestinese, che si possono identificare le cause che hanno prodotto il terreno fertile per questa tremenda incursione di Hamas del 7 ottobre, creando l’opportunità per essa di rilanciare le sue tremende attività di propaganda, attraverso una azione totalmente ingiustificabile. Purtroppo in questo scenario il problema è che c’è una Autorità Nazionale Palestinese non in grado di essere all’altezza del ruolo che da lei ci si attende, ma che dovrà rigenerarsi per poter assolvere un ruolo decisivo dopo il rovesciamento di Hamas. Una questione che sarà cruciale dopo il termine delle operazioni di autodifesa israeliane quando si dovrà cercare una soluzione politica per la quale stanno premendo gli Stati Uniti, il governo italiano, gli stati europei e su cui si è pronunciato autorevolmente anche il ministro Tajani. La ricerca di una soluzione politica è al centro delle agende di molte diplomazie occidentali e di molte diplomazie arabe che purtroppo non possono dichiarare di gradire una messa fuori gioco di Hamas, in quanto costola dei Fratelli Musulmani, ma che di fatto la auspicano. Molte monarchie sunnite temono, infatti, Hamas come costola dei Fratelli musulmani e come elemento di scardinamento degli assetti costituiti, oltre che come nemico per i tentativi di equilibrio in Medio Oriente a cui auspicano le componenti migliori del mondo islamico moderato.
In questo scenario che ruolo ha la Turchia?
Per la Turchia va fatto un discorso a parte poiché essa, nonostante sia un paese NATO, è una potenza islamica, che, soprattutto con Erdogan alla guida del Paese, vuole porsi come unico credibile difensore della causa palestinese in concorrenza anche con Teheran, per non farsi scavalcare a destra, o a sinistra se vogliamo, per la leadership del mondo islamico. Un ruolo di protagonismo quello turco che viene sfruttato anche per evocare un richiamo che è nella mente del turco medio, legato ai fasti del passato ottomano ed imperiale. Ci sono quindi anche dei fantasmi del passato che riaffiorano nell’attività di Erdogan ma che sono dovuti anche ad obiettivi di politica interna. Quello di Erdogan è quindi anche il tentativo di coalizzare il suo elettorato intorno ad una causa che possa mobilitate le masse credenti, che sono la base elettorale di Erdogan, puntando sui sostenitori del nazionalismo turco anche fuori dal suo partito. Il tutto dietro al mito della Turchia come grande potenza, o “impero” se vogliamo, regionale. I nazionalisti del MHP sono del resto anche degli alleati di governo imprescindibili per Erdogan. Quindi nella posizione di Erdogan c’è anche una chiave di lettura interna agli equilibri della sua coalizione che non va sottovalutata. La Turchia si pone però anche come mediatore, in quanto paese NATO, che mantiene e deve mantenere con l’Occidente un canale di dialogo. In questo scenario, l’ammissione della Svezia nella Nato, sarebbe un segnale che probabilmente potrebbe fare da contrappeso a questa deriva antiamericana e antiisraeliana.
Come questo conflitto si inserisce nello scenario internazionale? E Secondo lei stiamo assistendo a quella che il Papa ha definito una “Terza guerra mondiale a pezzi”?
È una domanda importante a cui non è facile rispondere, perché ci mancano molti tasselli che ci impediscono una risposta complessiva. Quello che è certo, e che mi pare essere una constatazione oggettiva, è che le potenze che più beneficiano di questa esplosione ulteriore della crisi palestinese tra Israele e Hamas sono, seppur in forma indiretta, le principali autocrazie: l’Iran, che tutto ha da guadagnare da queste tensioni e da un eventuale isolamento di Israele; la Russia di Putin, che con l’apertura della crisi di Gaza ha visto attenuarsi l’attenzione occidentale della comunità internazionale verso la crisi ucraina anche in termini di fondi disponibili, basti pensare alla discussione aperta nel congresso americano sui fondi da destinare alla sacra autodifesa di Kiev; e la Cina. Infatti l’altro paese che può giovare di un relativo isolamento di Israele sulla scena internazionale, ma nel mondo arabo nello specifico a seguito di un percorso di progressivo reinserimento di Israele nel contesto mediorientale che sembra momentaneamente sospeso ed in questo senso è positiva la volontà dell’Arabia Saudita di non tagliare i ponti con il governo israeliano ma di congelarne momentaneamente i rapporti, è infatti per certi versi proprio la Cina in quanto potenza altra rispetto al blocco occidentale che può beneficiare di queste tensioni. Non voglio parlare di asse autocratico perché non esiste un sostanziale coordinamento comune, ma comunque Cina può giovare di tale situazione anche per distogliere l’interesse degli Stati Uniti, soprattutto in campo militare, dal fronte Indo Pacifico e da Taiwan. Ad ogni modo, venendo meno l’idea del reinserimento di Israele nel grande gioco mediorientale verrebbe anche meno, nelle aspettative cinesi, la possibilità di creare una alternativa alla Via della Seta con la famosa Via del Cotone che avrebbe come grande potenza orientale al suo posto l’India. Quello che è certo è che dagli scontri in atto tra Israele e Hamas stanno beneficiando soprattutto potenze ostili al campo occidentale.
Come questo conflitto asimmetrico si inscrive nel quadro di un Medio Oriente conteso tra l’avanzare delle autocrazie e la crisi dell’Islam moderato?
C’è una crisi dell’Islam moderato dovuta soprattutto al fatto che le piazze arabe sono facilmente mosse da parole incendiarie. Basti pensare l’episodio dell’asserito bombardamento israeliano dell’ospedale a Gaza che poi si è rivelato il giorno dopo, senza ulteriori smentite, il prodotto di un missile della jihad islamica andato fuori bersaglio. Quindi queste piazze sono fortemente manipolabili, e tutte le manifestazioni di sostegno ad Hamas che si sono realizzate in Indonesia, Egitto, Turchia, Giordania e Malesia sono un segnale di come quella parte, soprattutto di piazza, del mondo islamico sia materia funzionale a disegni estremisti. Però noto con interesse che le diplomazie e i governi dei paesi arabi moderati non rinunciano a svolgere un ruolo di raccordo con l’Occidente, nonostante queste manifestazioni. C’è stato un vertice per la pace del 21 ottobre in cui si sono dati importanti segnali su questo fronte, e per il quale il nostro paese, e questo va dato atto ed apprezzamento al governo Meloni, ha partecipato col suo presidente del Consiglio dando un ottimo segnale di impegno e coinvolgimento. Le diplomazie arabe sono quindi profondamente attive.
Sappiamo poi che il segretario di Stato Blinken ha visto nuovamente i vertici dei paesi arabi moderati, incontrando Abu Mazen, rappresentante della ANP. Una grande iniziativa perché l’ Autorità Nazionale Palestinese sarà fondamentale per definire la fase successiva al rovesciamento di Hamas e non potrà non essere parte di una futura soluzione politica dopo la crisi. Del resto non è vero che non ci siano segnali interessanti che vengono anche all’interno dello stesso stato israeliano.
Ovvero?
Pensiamo all’intervista rilasciata dall’ex primo ministro Ehud Olmert, che prima ha militato nel Likud e poi si è attestato su posizioni più centriste alla guida di Kadima, a Lorenzo Cremonesi sul Corriere. In questa significativa intervista Olmert, che è una figura molto rispettata e stimata nelle istituzioni israeliane, alla domanda sulla sua posizione sulla auspicata soluzione della crisi di Gaza, ha risposto dicendo che a suo avviso il governo israeliano deve annunciare subito che alla fine della battaglia contro Hamas sarà disposto a ritirare le truppe da Gaza a favore dell’arrivo di una forza di pace internazionale destinata ad assumere il controllo della Striscia per un tempo limitato in vista di una seria ed effettiva soluzione politica.
Va poi reso noto sempre da parte israeliana, continua Olmert, che Israele è pronto a riprendere i negoziati per la partizione della terra e la creazione di uno stato palestinese. Ora più che mai è necessario trovare una soluzione politica. Solo così, e la stessa intuizione l’ha espressa in varie occasioni il nostro ministro degli esteri Antonio Tajani, attraverso questa disponibilità israeliana al recupero di un possibile percorso politico, dopo aver rovesciato Hamas, la comunità internazionale potrà sostenere la nostra battaglia contro il terrorismo. Queste parole di Olmert mi sembrano molto importanti poiché rivelano quanto la stessa società ed il mondo politico israeliano presentino al loro interno voci diverse, alcune delle quali in linea con le nostre aspettative. A fronte soprattutto di talune componenti del governo Netanyahu, certamente estremiste. Desidero ricordare inoltre le parole importanti del ministro Tajani pronunziate a Tokyo negli scorsi giorni, a titolo nazionale e riprese anche nel comunicato del G7: “I coloni devono astenersi da manifestazioni di violenza contro i palestinesi della Cisgiordania perché questo finirebbe” – e sono parole sacrosante – “anche per ritorcersi contro la stessa Israele”, al di là dell’aspetto etico che è ovviamente condivisibile. Quindi direi che anche in questo caso il governo italiano si sta muovendo molto bene su tutti i versanti, quello politico come abbiamo visto con la già citata presenza del presidente del consiglio Meloni il 21 ottobre a Il Cairo, la presenza del ministro Tajani così attiva e propositiva al G7 di Tokyo, senza dimenticare quello che stiamo facendo sul versante umanitario. Il ministro Crosetto ha ricordato in più occasioni il fatto che abbiamo già inviato una nave ospedale al largo di Gaza e che lo stato maggiore della Marina con i nostri ministri competenti sta considerando l’istallazione di un ospedale di campo nella striscia di Gaza presso la zona costiera dove non sono presenti strutture di Hamas, proprio per fornire soccorso ai civili palestinesi. Un tema a mio avviso fondamentale. Ricordo che in Libano agli inizi degli anni ‘80, quando l’Italia era all’interno della Forza Multinazionale di Pace, creammo nelle zone oggetto di scontri, all’epoca tra le forze cristiano-conservatrici e il fronte palestinese , un ospedale di campo in una delle aree più bersagliate dal conflitto proprio a sostegno della fascia palestinese più povera. Quindi possiamo affermare che l’Italia è sempre in prima linea sul versante umanitario ed è quanto mi sembra fare anche oggi come abbiamo visto nella scorsa conferenza di Parigi. Ci stiamo muovendo bene a tutto campo proprio nella prospettiva del recupero di quella soluzione dei due stati, cosa che sta a cuore tanto all’Occidente e alla comunità internazionale quanto a molti regimi arabi moderati, come possiamo testimoniare attraverso il ricordo dell’iniziativa di pace saudita del 2002 che prevedeva nella soluzione di due stati la chiave di volta per superare l’impasse diplomatica. Questo è il percorso che dovremmo riprendere e ci auguriamo che ciò possa avvenire, dopo la messa fuori gioco di Hamas dalla striscia di Gaza.
Come valuta allora la proposta di Washington e quale futuro prevede in questa situazione?
La mia sensazione è che gli Stati Uniti vogliano continuare a svolgere un ruolo primario nella soluzione diplomatica della crisi anche se ovviamente stanno incontrando difficoltà. Chi non s’imbatte mai in difficoltà è del resto chi non si sporge, chi non fa nulla, e quindi credo che vada apprezzato e riconosciuto un forte impegno americano in particolar modo nella figura del suo presidente che è stato recentemente in Israele e del segretario di stato che sta facendo una diplomazia della “navette” tra gli USA ed il Medio Oriente con il coinvolgimento dell’autorità nazionale palestinese. Quello che è certo, a leggere le dichiarazioni dei vertici dell’amministrazione americana, è che Washington non gradirebbe una presenza a tempo indeterminato di Israele come controllo della striscia di Gaza, che è invece quanto sembra delineare Netanyahu e dunque notiamo anche una diversità di accenti sotto questo profilo che vedremo se sarà superabile o meno.
E quale potrebbe essere la principale soluzione per il “dopo Hamas”?
Penso sia aperta una soluzione che molti analisti, storici israeliani e studiosi di varia estrazione prospettano: una fase transitoria di una presenza multilaterale tramite una coalizione di “stati volenterosi” composta per lo più di paesi arabi moderati e probabilmente si potrebbe immaginare anche di stati dell’Unione Europea, insieme ad altri paesi che però siano credibili per le parti, al fine di far decantare la situazione e procedere subito alla costruzione delle basi minime per far sì che la vita civile possa riprendere a Gaza. Quindi arrivo di forniture alimentari, ricostruzione, ristabilimento di flussi idrici ecc. L’ideale sarebbe quello di trasferire il potere politico, una volta sconfitto Hamas, ad una ricostituita Autorità Nazionale Palestinese che comprenda però elementi di tutte le anime della galassia politica palestinese, facendo spazio anche ad espressioni che siano non dico vicine ad Hamas ovviamente ma almeno quelle inerenti all’area militante politica e certamente non terroristica con cui si può ragionare. Lo stesso Haniyeh alcuni giorni fa aveva dato segnale di disponibilità, anche se bisogna vedere quanto credibili di fronte ad una situazione politica così complessa. In questa fase andrebbe ricostituita una autorità nazionale politica palestinese in grado di assemblare tutte le sue anime. Anche se, come ha detto del resto in uno suo editoriale Lucio Caracciolo, l’Autorità Nazionale Palestinese sta nel fatto che non esiste in quanto soggetto unico credibile dato il suo essere troppo fratturata, troppo frammentata, e che quindi va ricostituita anche la sua credibilità. Qualora vi fosse un’Autorita Nazionale Palestinese ricostituita con figure rispettabili, penso a Mohammad Barghouti, Mohamed Alam e altre figure della diaspora che potrebbero aspirare a guidare la ANP nella sua nuova fase, probabilmente sulla base di un nuovo mandato popolare dato che sono anni che non si vota, soprattutto dopo il colpo di stato di Hamas a Gaza, e su un suo ruolo attivo nella risoluzione della crisi. Bisognerebbe poi ritornare a votare in condizioni accettabili, probabilmente con un monitoraggio della comunità internazionale. Servirebbe quindi una fase di decantazione assicurata da una formula di coalizione dei volenterosi con una maggioritaria presenza di paesi arabi moderati ed auspicabilmente un mandato delle Nazioni Unite, anche se questo è complicato a causa delle divisioni in seno al consiglio di sicurezza tra democrazie e autocrazie…
Dunque, speriamo che una tale forza multilaterale come nel caso del Kosovo o come è stato il caso dell’Unifil in Libano, quanto alcuni prospettano, possa ristabilire a condizioni accettabili, in prospettiva, una volta che la situazione si sia normalizzata, la possibilità di un passaggio di potere ad una ANP ricostituita e rigenerata che possa riprendere a poco a poco, magari forte di un vero mandato popolare, il controllo territoriale dei territori palestinesi a Gaza e della Cisgiordania, interrompendo l’espansione progressiva dei coloni. Lo stesso Olmert ha parlato soprattutto della necessità di smantellare le colonie ebraiche in Cisgiordania, mantenendo solo una parte delle terre occupate nel ‘67, specie nella zona di Gerusalemme, restituendo le altre, garantendo però un presidio sulle zone sensibili che dovranno essere amministrate da un ente internazionale composto da cinque nazioni (Arabia Saudita , ANP, Giordania, Israele e Stati Uniti) sotto gli auspici dell’ONU. Ciò isolerà Hamas, nemico della pace, del popolo palestinese e del mondo arabo moderato. Mi sembra che ci siano personalità autorevoli nel mondo israeliano che stanno pensando ad un percorso di pace. Certo il problema è relativo agli assetti parlamentari in cui Nethaniau è ostaggio delle componenti estremistiche del governo, che non aiutano certamente la pace anche se c’è un gabinetto di guerra in cui c’è una personalità autorevole come Benny Gantz che può far passare messaggi di maggiore moderazione pur nella tutela del diritto israeliano all’autodifesa, che nessuno contesta, nella cornice del rispetto del diritto internazionale.
In questo quadro come vede la proposta di un ruolo egiziano?
Anche sull’Egitto ci sono idee interessanti soprattutto per la risoluzione del problema degli ostaggi su cui circolano varie ipotesi. È molto importante però capire che quello che il mondo arabo, e soprattutto la piazza araba, non potrà accettare è che i palestinesi vengano completamente espulsi da Gaza nonostante una parte dell’ala più ortodossa, la più estremista, veda con favore uno svuotamento da Gaza da parte di tutta la componente palestinese che però avrebbe esiti molto pericolosi perché creerebbe numerosi tensioni e soprattutto le premesse per ulteriori conflitti.
Ad esempio si ragiona con l’ipotesi di invitare a fare accogliere i profughi palestinesi da parte dell’Egitto in cambio di una riduzione sostanziale del proprio debito estero finanziata con fondi degli stati del Golfo. Una proposta che ci mostra quanto la diplomazia sta rivelando ancora una volta la sua necessità. Si parla criticamente ed impropriamente della diplomazia come di una attività desueta che si perde tra cocktail e ricevimenti, ignorando spesso quanto tutte queste componenti ed azioni internazionali sono frutto di un lavoro massiccio e significativo del mondo diplomatico. Uno sforzo significativo non solo degli Stati Uniti ma di molti paesi del mondo arabo moderato e dei paesi europei, in primis l’Italia.
Quali potrebbero essere le prospettive e i punti d’azione del governo italiano in questo scenario?
L’Italia sta svolgendo il suo ruolo egregiamente. Vorrei sottolineare anche il ruolo importante come possibile e credibile mediatore del nostro governo. Noi abbiamo tante carte da giocare in quella parte del mondo, perché da anni abbiamo una politica mediorientale ispirata all’equilibrio e a tutte le parti in causa, salvo con i terroristi con cui non si può e non so deve avere nessun rapporto. Noi potremmo svolgere questo ruolo di facilitatori nei contatti tra la componente israeliana e le componenti arabe moderate, soprattutto l’ANP che dovrà svolgere un ruolo fondamentale dopo la sconfitta di Hamas, per la nostra presenza con Unifil nel Libano meridionale, sia nel ‘78 che con Hezbollah. Abbiamo un ottimo rapporto con i paesi arabi quanto con l’amministrazione Biden e con il governo israeliano.
Da quando è iniziato il conflitto l’Italia ha svolto un ruolo significativo, e la Meloni ha mantenuto contatti con tutti i leader arabi. Credo che quindi sul piano degli ostaggi la voce italiana potrebbe essere ascoltata. Un ruolo fondamentale per Israele e i civili palestinesi che Hamas usa come scudi umani. È importante ricordare che Hamas non difende la causa palestinese, che sfrutta strumentalmente, ma quella del fondamentalismo islamico, che è il vero nemico dei palestinesi e dell’islam moderato. Bisogna quindi distinguere in maniera profonda Hamas e la causa palestinese, e la nostra speranza è che possa trovare vita una autorità nazionale palestinese rigenerata capace di guidare democraticamente il “dopo Hamas” oltre i fondamentalismi e i fanatismi, in concordia e nel rispetto dello Stato di Israele.
Intervista di Francesco Subiaco e Francesco Latilla