La dolce vita delle piccole cose: Alessandro Ristori tra il palcoscenico e il nuovo singolo “Love Hotel”

La dolce vita delle piccole cose: Alessandro Ristori tra il palcoscenico e il nuovo singolo “Love Hotel”

Poliedrico, energetico, italianissimo, Alessandro Ristori è un artista fuori dal tempo oltre che dagli schemi. Un vero mattatore della musica contemporanea che attraverso riferimenti retrò di vario genere dal rock and roll al pop italiano, rigorosamente figli degli anni ‘50 ‘60 ‘70 dello scorso secolo, dichiara attraverso una visione poetica e malinconica l’amore per la “dolce vita” e per quel sogno di vivere come nei grandi film che ha caratterizzato lo sguardo di un’Italia i cui successi ancora oggi vengono riconosciuti nell’intero mondo. Ristori, con il suo irrefrenabile talento, vola da una nazione all’altra ormai da anni esibendosi dinanzi a principi, capi di stato e migliaia di persone di qualunque nazionalità perché in fondo, a detta sua, il linguaggio del corpo e il modo di esprimere la propria arte sono i veicoli attraverso cui l’interprete arriva ovunque, emozionando il proprio pubblico. Dopo il grande successo che ha caratterizzato i suoi ultimi anni lavorativi, il re del jet set internazionale è stato avvistato negli studi di Rai 1 all’interno del programma “Domenica In” condotto da Mara Venier. Quest’oggi, venerdì 20 gennaio 2023, è un giorno speciale perché esce il suo nuovo singolo “Love Hotel” un manifesto, un vero atto d’amore che dedica all’atmosfera cinematografica che si respira in quegli alberghi di lusso in cui, tra una festa, un profumo particolare o un cocktail è possibile scrutare in un corridoio gli echi di quegli anni ruggenti che hanno cavalcato come una tigre il secolo breve, l’intramontabile novecento. Allora, non ci resta che entrare nel film di Alessandro Ristori.

 

Alessandro, cosa dobbiamo aspettarci dal tuo nuovo singolo “Love Hotel”?

 

Si tratta di un manifesto, come sempre, di quel che porto avanti da tempo ossia l’immaginario di una parte del novecento che grazie a Dio esiste ancora nel mondo e che naturalmente abbiamo impresso nella memoria grazie a film e fotografie che hanno reso iconico un lungo periodo il cui fascino tutt’ora seduce. Ricordiamoci che attraverso la cinematografia, ad esempio, l’amore verso quello stile e quei modi di vivere è stato ed è tutt’ora il motore dei nostri modelli, di quelle abitudini o cliché che vogliamo portare avanti. Sicuramente, avendo la fortuna di potermi esibire in luoghi di lusso che hanno anche un’importante storica ho deciso di descrivere questa visione da “dolce vita” in chiave musicale e poetica. Se pensiamo a L’hotel de Paris o al St. Regis di Roma, ci accorgiamo di quanto siano importanti questi luoghi da sogno che vanno portati avanti assieme a determinati usi e costumi che ormai indubbiamente fanno parte di noi, tra cocktail bar, grandi saloni per feste, eleganza nel vestire e una vista stupenda su un paesaggio mozzafiato com’è il nostro. In conclusione, potrei dire che è un vero mix di caratteristiche del novecento.

Parlando appunto del ‘900, una volta hai precisato che il pubblico guardandoti e ascoltandoti deve entrare in film di quel tempo. Cosa intendi con questo e soprattutto, qual è il mondo che abita Alessandro Ristori? Quali sono le figure che siedono nel tuo olimpo?

 

Dico sempre che quando uno spettatore viene a vedermi deve entrare in un film. Se vai al cinema sai che c’è un orario, sai quando inizia e quando finisce ma non hai la certezza sulla storia che ti verrà raccontata, io cerco di fare la stessa cosa per quell’ora e mezza con il pubblico che trovo di fronte a me e con cui interagisco e quando si crea l’atmosfera giusta allora si è davvero catapultati nel film di Alessandro Ristori. Questo film però lo vivo nella mia testa sin da quando ero ragazzo e ogni giorno cerco di esternarlo al mondo, come un sogno che continua, di conseguenza quando sono sul palco voglio fare in modo che tutti siano comparse di questo grande set che per quanto mi riguarda deve essere anche uno stile di vita, senza fare chissà che cosa di eclatante ma semplicemente riprendere in mano determinate sfumature del nostro modo di essere che col tempo abbiamo un po’ smarrito. Poi, per quanto riguarda le figure che mi hanno ispirato, credo che un po’ tutti siamo figli di Adriano Celentano, di Elvis Presley e di Frank Sinatra, i grandi godfather della musica leggera e del cinema musicale. Credo che questi mostri sacri non debbano mai essere dimenticati e poi come dice Woody Allen: “Se proprio vuoi copiare, copia i migliori” ovviamente riadattando l’ispirazione al proprio modo di essere, al proprio stile. Un’altra figura enorme che mi viene adesso in mente è Dean Martin, un personaggio di una completezza esagerata, un’artista impressionante dal punto di vista musicale ma anche attoriale e poi era dotato anche della fortuna di avere le fattezze mediterranee e uno swing americano impareggiabile. Poi siamo tutti figli di quella grande opera del novecento che è il cinema e che ha forgiato i nostri sogni, in bianco e nero o a colori, di cui figure come Sinatra e Martin erano stelle e quelle opere lì, di quegli anni, restano capolavori eterni. Penso che al giorno d’oggi se riesci a far sognare la gente anche per soli tre minuti è una vittoria.

 

Secondo te quanto incide la musica sul sogno delle persone?

 

La musica ha sempre inciso tantissimo. La colonna sonora della vita di ciascuna persona è scandita da precisi brani, quindi non è da meno rispetto al cinema. L’arte filmica è forse un po’ più nobile, direi però che senza musica la vita non sarebbe brutta ma addirittura schifosa. Probabilmente è cambiato il concetto di vivere la musica quotidianamente, anche perché siamo bersagliati dalle canzoni dato che anche se vai nei bagni dell’autogrill puoi sentirla. Questa sovraesposizione della musica a volte può rivelarsi anche esagerata e controproducente. Se sono in fila all’autogrill credo che non mi vada neanche di sentire un pezzo che mi piace. In più, il fatto di poter ascoltare illimitatamente qualunque cosa tramite il cellulare ha cambiato completamente l’utilizzo della musica perché la ascoltiamo in ogni luogo in ogni orario ma senza quei riti che ci facevano accendere o spegnere il supporto di note musicali e di conseguenza dove non c’è rito tende a mancare l’importanza. La cerimonia serve a valorizzare quel che stai facendo. Con questo non voglio dire che non si ami più la musica, perché la si può amare ugualmente, però il fatto di poterla ascoltare senza un rito secondo me fa sì che venga presa un po’ più sottogamba. Sono contro anche l’idea di vedere un film sul cellulare, perché amo la sala cinematografica. In fondo la poesia che emana un film di un certo rilievo sicuramente non può essere concentrata su quel minuscolo schermo, in fondo anche l’andare al cinema è un rituale.

Parlando del rituale come concerto musicale, quant’è fondamentale oggigiorno far tornare le persone alla normalità abbandonando la paura che ha caratterizzato i due anni precedenti?

 

È fondamentale far capire alla gente che bisogna assolutamente tornare a vivere in maniera normale. Abbiamo demonizzato i cinema e la musica dal vivo quando persino nei periodi delle grandi guerre l’unica cosa che non si era mai fermata è stata l’arte. Non confondiamo la precauzione con l’esagerazione che si è rivelata devastante per chi lavora e per coloro che fruiscono di tali strumenti. Milioni di persone sono state ferme e ad un certo punto più che di malattia si ingrandiva la possibilità di morire di depressione o di fame.

 

Carmelo Bene, grande genio rivoluzionario del teatro, parlava spesso della differenza che esiste tra lingua e linguaggio nella dimensione di uno spettacolo e quindi piuttosto che utilizzare una diversa lingua per farsi comprendere da una parte di pubblico straniero è ben più efficiente e alto l’utilizzo del proprio linguaggio artistico, in quel caso quello teatrale appunto, che in realtà viene capito anche da un cinese, un inglese. A tal proposito, tu che sei un artista che si esibisce nell’intero mondo e con un repertorio contenente maggiormente canzoni italiane, quanto credi nella funzione del linguaggio proprio per farti comprendere da un pubblico estero?

 

Credo sia essenziale. Ci sono cose che si dicono anche col corpo ad esempio e quando tu guardi bene negli occhi chi hai di fronte e riesci a trasmettergli l’emozione che vuoi dare, puoi essere a Forte dei marmi, in Egitto o a Vladivostok e capisci che il rapporto tra le persone e l’artista è universale. Non a caso  questi brani italiani che porto sul palco sono dei successi internazionali senza età, anche se questo dettaglio non indifferente l’abbiamo un po’ accantonato. Esistono circa cinquanta brani amati in tutto il mondo che sono figli della nostra lingua. Il discorso del linguaggio invece, e della lingua, è fondamentale e credo sia una dote che uno ha. Penso di averla abbastanza dato che riesco ad interagire dal palco con generazioni e popolazioni di paesi diversi con estrema facilità, non mi pongo neanche il problema di cantare un pezzo italiano pensando che uno spettatore non lo capirà. Per me non importa che capisca tutte le parole. Si crea qualcos’altro legato alla melodia, al sogno che porti, al climax che si crea tra te e il pubblico e in quel momento capisci che si tratta di una storia d’amore tra te e i tuoi spettatori ed è per questo che l’atmosfera, le luci, il sorriso sono dettagli che formano un puzzle completo in cui se manca anche solo un pezzo crolla tutto.

 

Come si fa a diventare  il re del jet set italiano e internazionale?

 

Intanto bisogna essere una persona educata e semplice riconoscendo i propri limiti sapendo che di fronte avrai sempre qualcuno più importante di te, questo però credo valga anche in qualunque altro mestiere. Partendo da questo presupposto, chi ti guarda capisce che non sei lì per arrivismo ma per fare semplicemente il tuo mestiere e poi penso che serva anche una qualità artistica senza la quale non ti chiamerebbe nessuno. Non ho mai pensato che i non bravi ce l’hanno fatta. Lo dice uno che sta facendo delle cose piuttosto piccole in confronto a quelle dei grandissimi ma penso comunque di aver raggiunto qualche risultato perché ho capito che negli ultimi anni artisticamente sono credibile, prima non lo ero. Forse ero troppo giovane, forse non ero abbastanza bravo, però da qualche anno ho visto incastrarsi tante cose tra cui la credibilità artistica e una grande gavetta sul palco oltre che la mia educazione a lavoro e penso che una tale unione ha fatto sì che succedesse qualcosa. In più c’è un messaggio molto naturale che porto avanti, perché non ho programmato ad hoc lo spettacolo ma semplicemente sono io che porto la mia vita sul palco e questo si ricollega anche al discorso sul linguaggio, la gente lo capisce. Lo ha capito il Principe Alberto di Monaco, il principe William, il primo ministro del Libano, imprenditori che gestiscono migliaia di persone e lo ha capito anche il povero cristo che viene a vedermi in una piazza e mi saluta. Questo riuscire a mettere assieme persone di diversa provenienza nel mondo ma anche di status sociale per me è importante e spero che sia frutto del mio essere rimasto quel ragazzo di provincia, quel bambino del cortile che sogna l’escalation ma in maniera buona. Ho sempre detto che se vedo uno con la ferrari no lo invidio, anzi sono contento per lui perché non bisogna mai portare invidia per ha più di te, di chi ce l’ha fatta, ma lavorare sodo sperando di poter avere un giorno anche solo un dito di ciò che hanno ottenuto loro. Se sono in autostrada e invece dei panini confezionati riesco a farmene uno col pane fresco e il prosciutto buono per me già quello è la “dolce vita”, devi crearti la situazione più figa in ogni situazione.

La dolce vita delle piccole cose?

 

Si, esatto. Tra l’altro non mi vergogno di dire che per anni ho lavorato gratis, dato che ho cominciato da ragazzino, così come non mi vergogno del fatto che non tutte le stagioni sono andate come speravo o che durante i due anni del covid ho anche avuto paura che il rubinetto non riaprisse più. Sono fiero del fatto che da sempre ci credo come un matto, perché sto bene nel fare quello che faccio. Ogni serata è una battaglia fino all’ultimo secondo.

 

Parlando del tuo modo di stare sul palcoscenico, sembra essere in funzione di un’ anti-rappresentazione attraverso dei movimenti articolati che tendono all’atto, a qualcosa di immediato, tanto da renderti parte della musica. Quanto manca il corpo così teatrale e viscerale nei concerti italiani di oggi?

 

Non voglio essere troppo critico però una cosa su cui posso fare leva è il movimento che dev’essere un tutt’uno col ritmo e questo credo manchi moltissimo. Non dico che tutti debbano essere come i campioni americani che sanno fare tutto e bene, a volte anche troppo, ma se andiamo ad osservare ad esempio un Tom Jones vediamo che sul palco era una bestia e sapeva sempre stare sul pezzo, stessa cosa vale per quell’animale da palcoscenico di Little Richard e per Celentano nella sfera italiana. Sicuramente noto che oggi manca molto nel nostro paese. Non parlo di fare anche i ballerini, attenzione, ma di saper muovere il corpo in funzione del ritmo musicale come nell’ambito tribale che nel tempo era divenuto un tratto culturale anche di noi bianchi.

Sei un artista poliedrico che riesce ad utilizzare prevalentemente canzoni di altri riuscendo però a farle proprie e donando loro una nuova luce. Ti consideri al di fuori del tempo?

 

Certamente, mi considero al di fuori del tempo perché altrimenti non potrei fare quello che faccio. Ogni volta che vado a prendere un brano più o meno famoso penso che le due caratteristiche fondamentali siano l’interpretazione e il sound, quindi prendere qualcosa che è già stato creato, distruggerlo e farlo proprio. Questo vuol dire avere un’identità di suono e nel mio quintetto c’è, quindi posso utilizzare brani di altri ma aggiungendo il mio sound che mi contraddistingue e mi permette di spaziare tra le epoche. Bisogna crearsi il proprio mondo. Questa è la differenza tra la cover band e l’interprete, perché  altrimenti diventa un lavoro che possono fare tutti e invece non è così. Il mio balance è molto bilanciato tra una visione europea e fortemente italiana ma con influenze anche da oltreoceano così come il mio sound che parte dall’unione tra basso, batteria, chitarra e qualcos’altro e credo che quando si crea qualcosa con questo ensemble è già un passo enorme. Inoltre per cantare un brano famoso, che è più difficile di un inedito, sono sicuro che bisogna lavorare molto sullo stile e sull’interpretazione, cosa fondamentale ripeto. Non c’è bisogno di fare degli arzigogoli con la voce, non c’entrano nulla, mi ritrovo invece nelle parole di Nilla Pizzi: “Il cantante bravo è quello che canta con la propria voce” ed è vero. Quando ascolto un brano di De Gregori e poi lo sento parlare dal vivo mi rendo conto che si tratta della stessa voce, della stessa persona. Stessa cosa vale anche per Vasco, Venditti, Baglioni, Celentano e tutti i grandissimi.

 

Cos’è per Alessandro Ristori la nostalgia?

 

È un qualcosa che tutti noi abbiamo incollato addosso ogni giorno e penso che faccia anche bene averla al proprio fianco. La nostalgia ti rende più dolce, ti fa venire l’occhio languido, fa sì che l’uomo abbia ricordi e voglia di riviverli e a volte anche di crogiolarsi dentro di loro. In qualche modo ti fa compagnia, io ad esempio mi definisco un nostalgico cronico. L’importante è non confondere la nostalgia con la tristezza perché si tratta di due cose totalmente differenti, oggi in Italia vengono confusi quotidianamente questi due stati d’animo. Credo che se ci fosse più nostalgia saremmo più sereni…

Intervista di Francesco Latilla

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