I quesiti referendari del prossimo 12 giugno inerenti una parte della riforma più ampia della giustizia, saranno un importante banco di prova per la vita stessa delle coalizioni di partiti che, pur a fatica, sono riusciti a creare nel senso comune dei cittadini italiani. È risaputo oramai, come tra i promotori della proposta referendaria vi sia la Lega, che nella fattispecie si avvale del “sostegno” di formazioni politiche ad essa inevitabilmente contrapposte, leggasi + Europa, gli stessi Radicali, i renziani di IV e Azione di Calenda. Favorevole alla riforma anche la parte centrista della coalizione di destra e cioè FI del Cavaliere.
Contrari su tutta la linea, come del resto secondo copione, il Movimento 5 Stelle ( il quale nel precedente esecutivo Conte avevano sostenuto la riforma del loro ministro Bonafede). Il PD invece sarebbe in una posizione mediana col leader Letta che (quasi ne avesse il diritto) “lascia” libertà di voto ai suoi elettori.
Ora, stando così le cose, si apre la strada al dibattito su quali effetti portano con sé le posizioni degli uni e degli altri. Infatti la prima sconfortante evidenza è che in Italia le coalizioni non esistono più, fatto che, a meno di un anno dalle elezioni politiche, è ancor più stravagante. Del resto la riforma divide tra giustizialisti e garantisti ma non solo, dato che nel campo dei secondi si riscontrano dei distinguo (PD e FdI, che è favorevole ad alcuni quesiti ma contestualmente ne boccia altri).
Di notevole importanza è capire quali sono, concretamente, le proposte sul tavolo e cioè comprendere i 5 quesiti ai quali saremo chiamati a dare risposta tra pochi giorni. Importante sottolineare poi come 3 dei 5 quesiti siano già oggetto di disposizioni da parte della riforma dell’attuale guardasigilli Cartabia (approvato alla Camera ed ora in attesa di essere esaminato al Senato). Il primo quesito riguarda l’abolizione della nota e altrettanto controversa legge Severino (sulla quale non interviene la su citata riforma). Ai sensi della detta legge è fatto divieto di candidarsi o ricoprire incarichi amministrativi o di governo, a pena di decadenza, a coloro i quali siano stati condannati in via definitiva per reati gravi come la costruzione. Per i promotori del referendum la qui riportata disposizione produrrebbe un effetto distorsivo e dannoso in quanto comporterebbe la sospensione degli amministratori anche in caso di sentenze non definitive, ma sembra impossibile che per curare questo effetto distorsivo si debba abrogare l’intero testo (rimettendo la decisione di volta in volta in mano al giudice).
Il secondo quesito riguarda l’abolizione dell’ultima parte dell’articolo 274 del codice di procedura penale che prevede ordinanze di misure cautelari (obbligo di firma; domiciliari), giustificate dal periodo di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato o ancora pericolo di fuga dell’indagato. Invero la riforma richiede di abrogare queste misure limitatamente ai reati meno gravi. Anche questa proposta appare contraddittoria, in quanto è provato che chi commette questo genere di reati è soggetto alla reiterazione degli stessi. Neanche il secondo quesito sembra accettabile.
Il terzo quesito riguarda la separazione delle carriere, eliminando la facoltà di passare dalla magistratura requirente (e cioè il Pubblico Ministero che nel processo rappresenta l’accusa) a quella giudicante( il giudice super partes che emette la sentenza). Ad oggi i magistrati hanno la facoltà di cambiare per ben 4 volte, i promotori vorrebbero revocare tale facoltà. In materia sta intervenendo la riforma del ministro Cartabia, la quale propone di limitare tale facoltà ad una sola volta (una soluzione di compromesso che ci sembra più accettabile).
Il quarto quesito riguarda l’introduzione della possibilità degli organi “laici” (giuristi ed avvocati) di partecipare ai giudizi sull’operato dei magistrati in modo da eliminare (secondo i promotori del referendum) quel grado di referenzialità che riguarda tali giudizi. Su questo punto interviene ancora la riforma Cartabia all’articolo 3. In questo caso, sembra introdurre giudizi “punitivi” nei confronti dei giudici, che, in un ordinamento democratico quale dovremmo essere, non dovrebbe trovare residenza.
Il quinto ed ultimo quesito riguarda l’abrogazione della norma che richiede al giudice la raccolta di almeno 25 firme per candidarsi a membro togato dell’organo di autogoverno della magistratura italiana (Consiglio Superiore della Magistratura abbreviato C.S.M.). Questa riforma secondo i promotori del referendum non solo riporterebbe in vigore la normativa del 1958, ma garantirebbe ad ogni giudice di candidarsi autonomamente alla carica, intaccando il potere delle “correnti” (gruppi di orientamento politico rappresentati nel “Parlamentino” dell’Associazione Nazionale Magistrati). Pur trovandoci, in linea di principio, in accordo con tale finalità, non possiamo prestare l’orecchio a chi (i promotori del no) afferma che tale riforma inciderebbe solo relativamente in materia, osservando come invece siano più incisive le norme della riforma Cartabia (pertanto sentiamo di doverci porre su di una posizione mediana sul punto).
Analizzati i 5 punti è venuto il momento di ricordare che, storicamente e non solo in Italia, il referendum è uno strumento di democrazia diretta, che può servire a stimolare la classe politica.Il più delle volte tuttavia il responso è di carattere conservatore (vale a dire che si limita a lasciare le cose come stanno, bocciando le proposte), si ricordino i vari referendum sulle riforme istituzionali che sono stati respinti dal corpo elettorale ( riforme proposte dai governi Berlusconi e Renzi). Ad ogni modo si invitano tutti gli aventi diritto a partecipare al referendum, in special modo coloro i quali saranno chiamati ad esprimersi sul rinnovo delle amministrazioni locali, i risultati dei quali, insieme a quelli dei referendum, ci forniranno preziose informazioni sullo stato delle cose in vista delle elezioni politiche del 2023.
Samuel Bonomo