La geopolitica è una materia alquanto complessa: lo è perché gli Stati utilizzati mezzi molto diversificati per esercitare il proprio potere sullo scenario internazionale, influenzando in modo più o meno esplicito i rapporti di forza con le altre potenze mondiali. Il calcio, con la sua diffusione planetaria, è stato spesso utilizzato con tale finalità: rappresentando una vetrina mondiale può configurarsi come strumento di soft power. Ne è grande esempio l’imminente mondiale di calcio che si svolgerà il prossimo inverno in Qatar: attraverso l’organizzazione di tale evento il Paese arabo potrà garantirsi un importante indotto economico e garantirsi una vetrina pubblicitaria enorme anche in occidente, cementando la propria immagine di Stato moderno, efficiente e meritevole di attenzioni. La stessa cosa sta avvenendo nel conflitto russo-ucraino: sia nel Donbass che nelle altre regioni russofone il calcio ha rappresentato un elemento di sostegno alle proprie istanze geopolitiche e – come è ben noto col caso Chelsea – gli oligarchi russi, nel corso degli ultimi decenni, lo hanno sfruttato per aumentare i propri rapporti con l’Europa e – nel mentre – aumentare la propria forza politica interna. Di tutto ciò ne ha parlato il Professore Alessio Postiglione – Giornalista professionista, direttore del Master in Communications della Rome Business School e docente di comunicazione e geopolitica presso Luiss, SIOI, Istituto Armando Curcio, Consorzio Nitel/Campus Biomedico – nel suo nuovo libro “Calcio & Geopolitica. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici” (Edizioni Mondo Nuovo). Con lui abbiamo parlato di ciò che sta avvenendo in queste settimane in Ucraina, cercando di comprendere come il calcio ha influenzato la geopolitica (e viceversa) nel corso di questi anni.
Parlando di Ucraina non si può non citare lo Shaktar Donetsk, club della regione del Donbass che negli ultimi 15 anni è riuscito a conquistare numerosi trofei nazionali e la prestigiosissima Coppa Uefa, divenendo la principale rivale della storica grande d’Ucraina, la Dynamo Kiev. Dall’inizio del conflitto – nonostante si trovi in una regione nella quale molte persone guardano con simpatia alla Russia per motivi storici e culturali – sui social ha mostrato molta vicinanza alle posizioni ucraine. Questa cosa ha creato malumori interni? E nel corso di questi anni quale è stato il rapporto intrattenuto fra club e tifoseria verso i moti autonomisti che stanno provocando conflitti sin dal 2014 all’interno di un territorio così instabile?
Non sono un esperto di Shakhtar, ma conosco l’uso che se n’è fatto politicamente. La squadra del Donbass, creata da Rinat Akhmetov, sostenitore dell’ex presidente ucraino filorusso, poi cacciato con la rivoluzione di Euromaidan del 2014, Viktor Yanukovych, patron del Partito delle Regioni, filorusso e secessionista. Una strategia a sostegno delle nazioni russe diffuse in enclavi importantissime dal punto di vista geopolitico, che non a caso hanno una proiezione calcistica: penso allo Sheriff di Tiraspol, in Transnistria, che ha battuto il Real Madrid in Champions league, quest’anno; alle nazionali ConIFA – una sorta di Fifa minore – di Abkhazia e Sud Ossezia, la cui secessione è stata all’origine della guerra russa in Georgia nel 2008. Manca la Moldavia all’appello, dove insiste la Transnistria. Stato rumenofono ma con una minoranza agguerrita che parla russo. C’è da fare gli scongiuri!
Se lo Shakhtar prende adesso una posizione contro la guerra, mi fa piacere. Ma il dato politico è quello.
Dall’altra parte, in territorio russo, vi è invece il colosso Gazprom. La UEFA, in seguito allo scoppio del conflitto, ha deciso di rompere il remunerativo accordo di sponsorship che l’azienda intratteneva con la Champions League, principale competizione per club europei: quale è l’impatto sui ricavi?
Le sponsorizzazioni di Gazprom sono un classico esempio di uso geopolitico di gas e calcio. Di solito, gli sponsor del calcio vendono prodotti che possano acquistare i consumatori. Nel caso di Gazprom, si tratta di una vetrina per parlare ai governi. Il colosso dell’energia russo, d’altronde tradizionalmente non sponsorizza solo la Champions League, ma anche: lo Zenit di San Pietroburgo, vincitore solo pochi anni fa della Coppa Uefa e squadra del pietroburghese Putin; la Stella Rossa di Belgrado, e si sa che la Serbia è il bastione russo nei Balcani; e perfino lo Schalke 04, sponsorizzazione che sembra fu favorita dall’ex cancelliere tedesco Schroeder, presidente di Nord Stream. Lo Schalke, fra l’altro, insiste nell’area di Reden, proprio dove termina Nord Stream.
Non sembra contraddittorio che le sanzioni alla Russia avvengano nello stesso anno in cui si terranno i mondiali in Qatar, Paese nel quale la creazione delle infrastrutture per i mondiali ha bypassato numerose misure di sicurezza per i lavoratori e notoriamente noto per non rispettare molti dei diritti umani?
Diciamo che, con il conflitto armato, esplicito, la Russia ha fatto un salto di qualità in peius, rispetto agli addebiti mossi a Doha di finanziare salafiti e jihadisti in giro per il globo, pur non volendo sottovalutare le pronunce dell’Ilo contro il Qatar sulle condizioni dei lavoratori migranti. Il calcio, d’altronde, è al centro di conflitti geopolitici mondiali e le mosse del Qatar o dell’Arabia Saudita e degli Emirati – penso agli interessi emiratini nel calcio, alla proprietà del Newcastle Utd o alla supercoppa italiano svoltasi a Jeddah – sono lo specchio di uno scontro che è anche interno all’Islam politico: Fratellanza musulmana qatariota Vs monarchie del Golfo.
Non si può non fare un accenno all’Italia: in che modo nel nostro Paese si è utilizzato e si sta utilizzando il calcio a fini geopolitici? Esistono precedenti illustri?
Il precedente illustre per l’Italia è da manuale: Silvio Berlusconi. Senza di lui non ci sarebbero stati Jesus Gil, presidente della Liga e dell’Atletico Madrid e sindaco di Marbella, e Bernard Tapie, presidente dell’Olympique di Marsiglia, la cui carriera politica è stata interrotta solo dagli scandali giudiziari. Berlusconi ha capito che, nell’epoca del politainment, quando funzionano le leadership carismatiche, perché le vecchie ideologie politiche sono morte, calcio, politica e spettacolo sono tutt’uno. E non è un caso che suo giocatore fosse il futuro presidente della Liberia George Weah.
Sicuramente, l’Italia – quando vinceva tutto con i suoi club negli anni 90 – era un brand. Ma lo è ancora oggi, come dimostrano gli interessi sinoamericani nel nostro campionato.
Un soft power di cui l’intero sistema Paese potrebbe giovarsi. L’idea è far venire da noi i facoltosi tifosi stranieri – il Milan ha più tifosi a Pechino di quanti non ne abbia a Milano! – a comprare i brand della moda a via Montenapoleone, far comprare loro il nostro cibo, farli innamorare della Val d’Orcia e della Costiera amalfitana e farli investire.
Intervista a cura di Alessio Moroni