Nelle ultime settimane l’attenzione di media e commentatori generalisti è stata monopolizzata dall’accoppiata tematica “gestione dell’epidemia” – “elezioni del Presidente della Repubblica”, portando a trascurare anche e soprattutto quel che, pur accadendo al di fuori dei nostri confini, continua a riguardarci. Mi riferisco all’intensificarsi delle ostilità nella parte orientale del nostro continente, lungo il confine tra Ucraina e, in sequenza, Bielorussia-Russia-territori controllati da insorti filorussi-Crimea annessa dai Russi [linea di faglia evidente nella mappa del Financial Times in basso].
Nelle ultime settimane infatti i sempre costanti movimenti di truppe russe nell’area sono progressivamente aumentati, con una corrispondente corsa del governo di Kiev alla mobilitazione sia delle forze armate che della popolazione civile, in parte inquadrata in milizie ed in parte semplicemente addestrata a sopravvivere ad un’invasione che la leadership ucraina inizia a temere imminente. Si rende a questo punto necessario, per comprendere per quale motivo la vicenda riguardi anche il nostro paese, tornare all’inizio del conflitto, nel 2014; l’Ucraina, indipendente dal 1991, era stata per più di due decenni stretta tra due tendenze: l’avvicinamento all’Unione Europea ed alla NATO, l’alleanza militare guidata dagli USA e loro strumento di protezione dei propri interessi strategici, e la permanenza nell’orbita russa con due conseguenti vantaggi per lo stato guidato, oggi, da Vladimir Putin: la garanzia dell’utilizzo dell’importante base navale di Sebastopoli, in Crimea, ed il venir meno della possibilità d’installazione di basi militari americane così vicino ai propri confini.
Nel 2014 una serie di proteste filo-europeiste (che presero il nome di Euromaidan) sostenute dall’apparato diplomatico-mediatico occidentale nei confronti del governo filo-russo di Viktor Janukovyč portò alla sua destituzione ed alla reazione militare russa che aveva due obiettivi: sventare la proiezione strategica statunitense nel proprio “cortile di casa” e scongiurare la perdita di autonomia delle tante zone dell’Ucraina abitate in maggioranza da russi, la cui imminenza era segnalata anche da una delle prime proposte del governo europeista appena insediato, quella di abrogare la norma che definiva la lingua russa come seconda lingua nazionale; i due obiettivi furono parzialmente raggiunti con l’annessione della penisola di Crimea e l’istituzione delle due piccole repubbliche autonome di Donetsk e Luhansk in aree a maggioranza etnica russa dell’oriente ucraino. Milizie dei due schieramenti e truppe regolari si sono da allora provocate in una fragile pace armata ma nelle ultime settimane la mobilitazione russa lungo tutta la linea dell’eventuale fronte ha raggiunto livelli inediti spingendo il governo ucraino ad intensificare i preparativi per il conflitto aperto, gli Stati Uniti a minacciare ripercussioni economiche sui Russi od addirittura l’intervento diretto sul campo e le cancellerie europee occidentali a sperare nella de-escalation. Se infatti obiettivo ucraino è quello di tutelare la propria (più o meno giustificabile) integrità territoriale, intenzione russa quella di assorbire i territori russofoni ed evitare che nel resto dell’Ucraina si instauri un governo ostile e mira statunitense (supportata dagli stati europei orientali) quella di non rinunciare all’assedio della Federazione Russa, sempre più circondata da basi americane e quindi vulnerabile in quadranti geo-politici dove gli Stati Uniti vogliono mani libere, gli stati dell’Europa Occidentale, Italia compresa, si trovano invece di fronte ad un bivio: piegarsi alle pressioni degli USA per assumere una postura ostile ai progetti dei russi oppure conservare con loro rapporti se non cordiali almeno non totalmente compromessi.
La necessità di mantenere vivo e quanto più amichevole possibile il dialogo con la Federazione Russa deriva per noi dalla consapevolezza dei nostri interessi nazionali, mai realmente coltivata proprio in virtù della sudditanza nei confronti degli indirizzi strategici provenienti da Washington;
le nostre urgenze sono sostanzialmente due: ottenere la garanzia di un costante approvvigionamento energetico a prezzi contenuti ed assicurare la stabilità di Medio Oriente e continente africano per evitare l’intensificarsi di fenomeni migratori e l’istituzione di stati pregiudizialmente ostili nei nostri confronti; rispetto ad entrambe le questioni, interlocutore naturale è proprio la Federazione Russa per i motivi che passiamo ad esporre.
Storica tesi della Destra politica, ispirata a criteri di pragmatismo, è quella dell’importanza dell’autosufficienza economica, e quindi anche energetica; non dover dipendere dall’approvvigionamento estero di materie prime o di energia elettrica è garanzia dell’autonomia e sovranità di una nazione. La mancanza di giacimenti significativi di gas o petrolio nel nostro territorio, la scarsa economicità ed affidabilità delle fonti rinnovabili e la scelta referendaria di abbandonare la fissione nucleare ci hanno però costretti ad essere fortementi dipendenti dall’estero per soddisfare il nostro fabbisogno energetico, del quale una quota significativa è coperta dall’importazione di gas proprio dalla Russia. La sola nostra manifesta ostilità diplomatica nei confronti delle rivendicazioni russe in Ucraina ha portato all’interruzione delle forniture di metano, facendone innalzare paurosamente il prezzo per i consumatori Italiani. Sarebbe ingenuo contestare la scelta russa su basi valoriali: lo stop all’esportazione di gas è per loro uno strumento di pressione politica, rispetto al quale bisogna scegliere una posizione pragmaticamente. Ferma restando l’urgenza di raggiungere l’autonomia energetica dobbiamo chiederci se l’impoverimento di ampi strati della nostra popolazione causato anche dall’aumento delle bollette sia un prezzo sostenibile per evitare, perché così esigono gli USA, che la Federazione Russa riporti nel proprio seno quelle che, di fatto, sono per essa terre irredente al pari, in altri momenti della Storia, della nostra Trieste o del nostro Lombardo-Veneto per noi Italiani. Diverso sarebbe il discorso se l’aggressività russa fosse espressione solo d’espansionismo ed imperialismo: pressioni su stati come la Polonia e la Romania sarebbero pressioni su stati nazionali etnicamente e culturalmente dotati di una propria identità, che andrebbero difesi proprio in nome dell’identitarismo e del progetto di un’Europa delle Nazioni, amiche ma innanzitutto libere.
Per quanto riguarda la pace e l’ordine sulle altre rive del Mediterraneo ed oltre, il sostegno operativo imprescindibile per Siria ed Iran nello sradicare l’ISIS è arrivato proprio dai Russi, che tramite contractors, mercenari, operano ormai anche nel Sahel per addestrare le truppe del Mali in funzione anti-islamista; il terrorismo di matrice islamica è infatti almeno dagli anni ‘90 una delle principali minacce alla sicurezza russa ed il coordinamento con gli Occidentali nella raccolta delle informazioni, la loro condivisione ed il successivo coordinamento nella fase di contro-insurrezione potrebbero garantire la sicurezza di tutte le parti coinvolte, stabilizzando gli stati in questione e frenando di conseuenza anche i flussi migratori.
Si tratta di riflessioni generiche sulle quali bisognerà tornare; per ora, sia semplicemente chiaro che interesse nazionale ed agenda statunitense difficilmente coincidono.
Monaldo Carolingio